«Servirà?»

«Non ne sono sicuro», ammise lui, «ma ho sentito dire che quegli esseri possono entrare solo se ne ottengono l'autorizzazione, e che sono scaltri nel guadagnarla con il trucco e l'inganno.»

Oltre ad avere ascoltato la storia di Père Callahan a Jerusalem's Lot, aveva anche letto Dracula, quindi capiva fin troppo bene che cosa intendeva Roland.

Lui la prese con dolcezza per le spalle e la distolse dal castello... che forse non era naturalmente nero, aveva concluso intanto, ma solo ossidato dal tempo. Le avrebbe dato la risposta la luce del giorno. Al momento la loro via era illuminata da un quarto di luna grumoso di nuvole.

Altre strade partivano da punto in cui si erano fermati, perlopiù storte come dita rotte. Quella che Roland voleva che guardasse, tuttavia, era un rettilineo e Susannah si rese conto che era la sola strada assolutamente dritta che aveva visto da quando intorno a loro aveva cominciato a crescere silenzioso il villaggio abbandonato. La pavimentazione era uniforme e levigata, non a ciottoli, e la direzione era sud-est, lungo il Sentiero del Vettore. Su di essa le nubi argentate dalla luna fluivano come barche in processione.

«Ti pare di scorgere una macchia scura all'orizzonte, cara?» le domandò sottovoce Roland.

«Sì. Una chiazza scura con davanti una fascia biancastra. Che cos'è? Lo sai?»

«Ho un'idea, ma non ne sono certo», rispose lui. «Riposiamoci qui. Manca poco all'alba. Poi vedremo entrambi. Per di più non mi va di avvicinarmi a quel castello di notte.»

«Se il Re Rosso se ne è andato e se il Sentiero del Vettore è da quella parte...» Indicò la via. «Perché dobbiamo andare per forza a quel dannato castello?»

«Per prima cosa per assicurarci che se ne sia andato davvero», spiegò Roland. «E poi perché potremmo trovare il modo di tendere un trappola a quello che ci insegue. Ne dubito, perché è furbo, ma una possibilità c'è. È anche giovane e alle volte i giovani sono sbadati.»

«Lo uccideresti?»

Sotto la luna il sorriso di Roland brillò di una luce invernale. Spietata. «Senza un attimo di esitazione.»

 

8

 

La mattina dopo Susannah si svegliò da un sonno superficiale e tormentato in mezzo alle provviste del risciò e vide Roland fermo in mezzo all'incrocio a guardare lungo il Sentiero del Vettore. Smontò manovrando con grande cautela perché era tutta intorpidita e rischiava di cadere. Si immaginava le ossa fredde fragili dentro il corpo, pronte a frantumarsi come vetro.

«Che cosa vedi?» le chiese lui. «Ora che c'è luce, che cosa vedi laggiù?»

La fascia biancastra era neve e Susannah non se ne meravigliò, visto che erano decisamente in quota. A sorprenderla e anche a riscaldare il cuore più di quanto avrebbe mai potuto immaginare, fu la vista degli alberi al di là della striscia di neve. Abeti verdi. Esseri viventi.

«Oh, Roland, sono bellissimi!» proruppe. «Anche con la base sepolta nella neve, sono bellissimi lo stesso! Non è vero?»

«Sì», disse lui. La sollevò in alto e la ruotò verso la parte dalla quale erano venuti. Di là dal tetro grappolo di abitazioni defunte vide un tratto della regione rocciosa che avevano attraversato, una distesa di spunzoni, interrotta qua e là da una rupe o una mesa.

«Pensaci», la esortò lui. «Laggiù, dove stai guardando, c'è Fedic. Dietro Fedic, Rombo di Tuono. Dietro Rombo di Tuono i Calla e la foresta che segna il confine tra il Medio-Mondo e Fine-Mondo. Più avanti ancora c'è Lud e oltre Lud Crocefiume; poi il Mare Occidentale e il grande deserto di Mohaine. Là in fondo, persi nelle leghe e persi nel tempo, ci sono i resti dell'Entro-Mondo. Le Baronie. Gilead. Luoghi dove ancora adesso vivono persone che ricordano amore e luce.»

«Sì», disse lei che non capiva.

«Da quella parte si è girato il Re Rosso a sfogare il suo capriccio», continuò Roland. «Lui aveva in animo di andare dall'altra parte, capisci, alla Torre Nera, e anche nella sua follia, si è guardato bene dall'uccidere la terra che avrebbe dovuto attraversare, lui e l'eventuale banda di seguaci che ha portato con sé.» A questo punto la baciò sulla fronte con una tenerezza che le fece venir voglia di piangere. «Noi tre visiteremo il suo castello e prepareremo lì una trappola per Mordred se la nostra fortuna sarà buona e se la sua sarà avversa. Poi proseguiremo e torneremo a terre vive. Ci sarà legna per i fuochi e selvaggina per cibo fresco e pelli con cui vestirci. Ce la fai ad andare avanti ancora un po', cara?»

«Sì», rispose lei. «Grazie, Roland.»

Lo abbracciò e mentre lo faceva guardò in direzione del Castello Rosso. Nella luce sempre più intensa vide che la pietra con cui era costruito, sebbene annerita dagli anni, era stata un tempo del colore del sangue versato. Questo particolare evocò il ricordo del suo conciliabolo con Mia sul cammino di Castello Discordia, il ricordo di quella luce rossa che pulsava ritmicamente in lontananza. Quasi dal punto in cui si trovavano loro adesso.

Vieni da me ora, se mai hai intenzione di venire, Susannah di New York, le aveva detto Mia. Perché il Re può stregare anche da lontano.

Era di quel rosso bagliore pulsante che parlava, però...

«Non c'è più!» esclamò. «La luce rossa che proveniva dal castello... Fucina del Re, l'aveva chiamata! Non c'è più! In tutto questo tempo non l'abbiamo vista nemmeno una volta!»

«Infatti», concordò lui e questa volta il suo sorriso fu più lieto. «Credo che abbia cessato di pulsare più o meno quando è stato sospeso il lavoro dei Frangitori. La Fucina del Re si è spenta, Susannah. Per sempre, se gli dei sono benevoli. Tanto siamo riusciti a ottenere, sebbene tanto ci sia costato.»

Quel pomeriggio raggiunsero Le Casse Roi Russe, per scoprire che non era poi del tutto abbandonato.

 

3

Il castello del Re Rosso

 

1

 

Erano a un miglio dal castello e il rombo del fiume invisibile stava aumentando decisamente d'intensità, quando cominciarono ad apparire pavesi e manifesti. I pavesi erano rossi, bianchi e blu, il genere di bandierine che Susannah associava alle sfilate del Memorial Day e alle Main Street di provincia il Quattro Luglio. Sulle facciate di quella case strette e arcane e su quelle di negozi da lungo tempo chiusi e svuotati da cantina a soffitta, quelle decorazioni stonavano come belletto sul volto di cadaveri in decomposizione.

I volti dei manifesti le erano fin troppo familiari. Richard Nixon e Henry Cabot Lodge che mostravano le dita nel segno della vittoria e sorrisi smaglianti da venditori di auto usate (NIXON/LODGE, PERCHÉ IL LAVORO NON È ANCORA FINITO, era lo slogan). John Kennedy e Lyndon Johnson che si tenevano l'un l'altro per la vita e alzavano la mano libera. Ai loro piedi, lettere cubitali proclamavano: SIAMO SUL LIMITARE DI UNA NUOVA FRONTIERA.

«Hai idea di chi abbia vinto?» le chiese Roland. Susannah viaggiava in quel momento a bordo del Fior di Taxi godendosi il panorama (e agognando un maglione: anche un cardigan leggero, per bontà di Dio).

«Oh, sì», rispose. Non aveva dubbio che quei manifesti fossero stati affissi a suo beneficio. «Kennedy.»

«Diventò il tuo dinh?»

«Il dinh di tutti gli Stati Uniti. E poi Johnson prese il suo posto quando Kennedy fu ucciso.»

«Ucciso? Così dici?» Roland era interessato.

«Aye. Ucciso a tradimento da un vigliacco di nome Oswald.»

«E i tuoi Stati Uniti erano la nazione più potente del mondo.»

«Be', la Russia ci stava dando del filo da torcere quando tu mi hai presa per il colletto e schiaffata nel Medio-Mondo, però sì, fondamentalmente sì.»

«E il folken del tuo paese sceglie da sé il proprio dinh. Non viene nominato in virtù della paternità.»

«Infatti», confermò lei con una punta di circospezione. Temeva che Roland stigmatizzasse il sistema democratico. O lo deridesse.

«Per citare Blaine il Mono», la colse in contropiede lui, «mi sembra parecchio gustoso.»

«Fammi un favore, Roland, non me lo citare. Né ora, né mai. D'accordo?»

«Come vuoi», disse lui, poi senza una pausa e abbassando bruscamente la voce, aggiunse: «Tieni pronta la mia pistola, se ti aggrada».

«Mi aggrada», rispose all'istante lei con lo stesso bassissimo tono di voce. Le venne fuori a-ada, perché aveva cercato di non muovere le labbra. Aveva ora la sensazione che ci fossero individui che li spiavano dall'interno degli edifici che affollavano quel tratto della Via del Re come le botteghe e le taverne di un villaggio medievale (o di un set cinematografico in costume). Non sapeva se fossero umani o automi o magari anche solo telecamere ancora funzionanti, ma aveva dato credito alla propria sensazione ancor prima che Roland gliene confermasse la fondatezza. E le bastava vedere come Oy dondolava la testa di qua e di là come un pendolo per sapere che la sua sensazione era condivisa anche dal bimbolo.

«Ed era un buon dinh, questo Kennedy?» chiese Roland tornando al suo normale tono di voce. Risuonò nitida nel silenzio. Susannah ebbe una bella sorpresa: non aveva freddo, sebbene l'aria nelle vicinanze del fiume fosse umida e più che fresca. Era troppo interessata al mondo intorno a sé per poter avere freddo. Almeno al momento.

«Be', non tutti erano di questo parere, di certo non lo era il balordo che gli ha sparato, ma secondo me sì», rispose. «Quand'era candidato alla carica, disse alla gente che intendeva cambiare certe cose. Gli avranno creduto anche meno della metà degli elettori, perché normalmente i politici mentono per lo stesso motivo per cui una scimmia dondola la coda, vale a dire perché possono. Ma dopo che fu eletto, cominciò a fare le cose che aveva promesso. Ci fu un faccia a faccia in un posto che si chiamava Cuba e dimostrò di avere abbastanza fegato... be', diciamo semplicemente che lo avresti gradito anche tu come compagno. Quando fu chiaro che faceva sul serio, certi bastardi assoldarono il balordo perché lo ammazzasse.»

Lei annuì, senza correggerlo, riflettendo che in fondo non c'era niente da correggere. Oz-walt. Oz. La solita ruota che girava, no?

«E dopo la morte di Kennedy, il suo posto lo prese Johnson.»

«Sì.»

«E lui com'era?»

«Quando me ne sono andata io, aveva appena cominciato, però era più il tipo che segue la corrente. Io non pesto i piedi a te tu non pesti i piedi a me. Capisci?»

«Capisco», ribatté Roland. «E credo che siamo arrivati, Susannah.» Roland fermò il Fior di Taxi. Con la mani ancora chiuse sull'impugnatura delle stanghe, stava contemplando Le Casse Roi Russe.

 

2

 

Lì finiva la Via del Re, aprendosi in un'ampia corte acciottolata che senza dubbio un tempo era diligentemente sorvegliata dagli uomini del Re Rosso come Buckingham Palace dalle guardie della regina Elisabetta. E sui ciottoli era disegnato un occhio in una vernice rossa che gli anni avevano scolorito assai poco. Visto al suo medesimo livello, si poteva solo intuire che cosa fosse, ma dai piani superiori del castello l'occhio dominava sicuramente il panorama a nord-ovest.

Ce ne sarà sicuramente uno per ogni punto cardinale, pensò Susannah.

Sospeso su quel cortile e teso fra due torri abbandonate, c'era uno striscione che sembrava piuttosto recente. La scritta, anche questa in rosso, bianco e blu, era:

 

BENVENUTI, ROLAND E SUSANNAH!

(E ANCHE OY!)

NON MOLLATE NEL MONDO LIBERO!

 

Il castello al di là della corte (e del fiume che fungeva da fossato) era davvero di blocchi di pietra color rosso scuro che gli anni avevano quasi totalmente annerito. Torri e torrette si ergevano crescendo via via di dimensioni in un modo che metteva a disagio la vista e sembrava sfidare la gravità. Incastonato in questo appariscente contorno, il castello era sobrio e privo di decorazioni eccetto che per l'occhio scolpito nell'arco che sormontava l'ingresso principale. Due dei camminamenti sospesi erano crollati disseminando calcinacci nella corte principale, ma altri sei, ancora integri, s'incrociavano a diversi livelli simili a un complesso svincolo autostradale in cui convergessero rampe di accesso e uscita con gli snodi di alcune arterie principali. Come già nelle abitazioni del villaggio, anche qui porte e finestre erano stranamente strette. A osservare i visitatori c'erano i grossi corvi neri, appollaiati sui davanzali e allineati sui camminamenti.

Susannah smontò dal risciò pronta a far ricorso alla pistola di Roland infilata nella cintura. Affiancò il pistolero davanti all'arco d'ingresso al di qui del fossato. Era aperto. Attraverso di esso vedevano il ponte di pietra a schiena d'asino. Sotto il ponte l'acqua nera turbinava in una gola di pietra larga più di dieci metri. L'odore era penetrante e sgradevole e là dove l'acqua scorreva intorno a rocce nere simili a zanne affioranti, la schiuma era gialla invece che bianca.

«Ora che cosa si fa?» domandò.

«Per cominciare ascoltiamo che cosa hanno da dirci quei due», rispose lui e indicò la porta d'ingresso in fondo alla corte acciottolata davanti al castello. I battenti erano socchiusi e da lì stavano giungendo due uomini, due individui del tutto normali, non gli striminziti giganti da luna-park che si era aspettata lei. Quando i primi due avevano già attraversato metà del cortile, dalla porta ne sbucò un terzo che corse a raggiungerli. Nessuno sembrava armato, e quando i primi due furono all'altezza del ponte, Susannah non fu esattamente sbalordita nel constatare che erano gemelli identici. E quello dietro era una replica degli altri due: pelle bianca, abbastanza alto, lunghi capelli neri. Tre gemelli, dunque: due a dare il benvenuto e uno per buona sorte. Indossavano jeans e giacconi alla marinara che provocarono l'immediata (e dolorosa) invidia di Susannah. I due davanti portavano capienti ceste di vimini con manici di cuoio.

«Mettici occhiali e barba, e sarebbero uguali identici a Stephen King, com'era la prima volta che io e Eddie l'abbiamo visto», commentò Roland a voce bassa.

«Sul serio? Dici il vero?»

«Sì. Ricordi che cosa ti avevo detto?»

«Di lasciare parlare te.»

«E prima della vittoria viene la tentazione. Ricorda anche questo.»

«Lo ricorderò. Roland, hai paura di loro?»

«Credo che ci sia poco da aver paura da parte di questi tre. Ma sta' pronta a sparare.»

«Non sembrano armati.» C'erano naturalmente quelle ceste, che potevano contenere qualsiasi cosa.

«Sta' pronta lo stesso.»

«Contaci.»

 

3

 

Nonostante il fragore del fiume sotto il ponte, sentivano il toc-toc ritmico dei loro passi. I due con le ceste si fermarono al centro del ponte. Lì posarono il loro carico. Il terzo si fermò dall'altra parte del fossato, giungendo compitamente la mani vuote davanti a sé. A questo punto Susannah fiutò l'odore della carne cotta di almeno una delle due ceste. E non era maiale a due gambe. L'aroma che arrivava fino a lei era di manzo e pollo arrosto, qualcosa che per le sue narici valeva il nettare degli dei. Le venne l'acquolina in bocca.

«Hile, Roland di Gilead!» esclamò l'uomo di destra. «Hile, Susannah di New York! Hile, Oy del Medio-Mondo! Lunghi giorni e piacevoli notti!»

«Se uno è brutto, gli altri sono peggio», commentò il suo compagno.

«Non ci badare», ribatté il sosia di Stephen King di destra.

«Non ci badare», ripeté l'altro scimmiottandolo e facendo una smorfia così volutamente deforme da essere comica.

«Due volte altrettanto a voi», rispose Roland rivolgendosi al più cortese dei due. Allungò una gamba piegando l'altra in un rapido inchino. Susannah fece riverenza secondo il costume dei Calla, allargando sottane immaginarie. Oy, seduto vicino al piede sinistro di Roland, si limitò a guardarli.

«Siamo uffi», si presentò l'uomo di destra. «Conosci gli uffi, Roland?»

«Sì», rispose lui, poi storcendo la bocca per rivolgersi a Susannah: «È una parola vecchia... anzi, antica. Dice che sono dei trasformisti». Abbassò ulteriormente la voce e nascose le sue ultime parole nel fragore del fiume: «Dubito che sia vero».

«Lo è», dichiarò quello di destra di buon animo.

«I bugiardi vedono bugiardi dappertutto», osservò quello di sinistra e roteò un occhio blu a sottolineare il suo cinismo. Uno solo. Susannah non aveva mai visto una persona muovere un occhio solo.

Il terzo non disse niente, fermo al suo posto con le mani giunte davanti a sé.

«Possiamo assumere qualsiasi forma», continuò quello di destra, «ma i nostri ordini sono di assumere quella di qualcuno che riconoscete e di cui vi fidate.»

«Non mi fido di sai King più di quanto potrei scagliare il più pesante dei suoi nonni», replicò Roland. «Semina guai più dei denti di una capra, quello.»

«Noi abbiamo fatto del nostro meglio», disse lo Stephen King di destra. «Avremmo potuto assumere la forma di Eddie Dean, ma abbiamo pensato che potesse essere troppo doloroso per la signora.»

«La 'signora' ha tutta l'aria di esser pronta a scoparsi una corda, se riuscisse a farsela star dritta tra le cosce», fece eco con un sogghigno concupiscente lo Stephen King di sinistra.

«Un'insolenza ingiustificata», dichiarò quello dietro di loro che se ne stava con le mani giunte. Il tono della sua voce era quello misurato di un arbitro. Susannah si aspettò quasi che comminasse a King Boccasporca cinque minuti di espulsione. E non le sarebbe nemmeno dispiaciuto, perché ascoltare le volgari ironie di King Boccasporca le faceva male al cuore; le ricordavano Eddie.

Roland ignorò la digressione.

«Potreste assumere tre sembianze diverse?» domando a King Boccalinda. Susannah aveva sentito il pistolero deglutire prima di porre la sua domanda: non era la sola a dover sforzarsi per non sbavare nei profumi di quella cesta di vivande. «Potrebbe per esempio uno di voi diventare sai King, un altro sai Kennedy e il terzo sai Nixon?»

«Bella domanda», ribatté da destra King Boccalinda.

«Stupida domanda», disse King Boccasporca da sinistra. «Del tutto fuori tema. Via per una tangente nel grande blu. Oh be', quando mai un eroe d'azione era un intellettuale?»

«Il principe Amleto di Danimarca», intervenne nel suo tono pacato King Arbitro. «Ma poiché è il solo che venga subito in mente, potrebbe essere solo l'eccezione che conferma la regola.»

Boccalinda e Boccasporca si girarono a guardarlo. Quando fu chiaro che aveva detto la sua senz'altro da aggiungere, tornarono a rivolgersi a Roland e Susannah. «Poiché siamo fondamentalmente una cosa sola», dichiarò Boccalinda, «e con capacità abbastanza limitate, la risposta è no. Potremmo essere tutti Kennedy, o tutti Nixon, ma...»

«La regola è: marmellata ieri, marmellata domani, ma mai marmellata oggi», recitò Susannah. Non aveva idea perché le fosse venuta in mente quella battuta (meno che mai perché l'avesse pronunciata a voce alta), fatto sta che King Arbitro esclamò: «Precisamente!» e le rivolse un cenno che valeva un bel voto.

«Muoviti, per l'amore di tuo padre», sbottò King Boccasporca a sinistra. «Fatico a guardare questi traditori del Signore del Rosso senza vomitare.»

«Molto bene», ribatté il suo compagno. «Anche se mi sembra ingiusto chiamarli traditori, almeno volendo tener conto del ka. Poiché i nomi che diamo a noi stessi sarebbero per voi impronunciabili...»

«Come il rivale di Superman, mister Mxyzptlk», disse Boccasporca.

«...vi converrà accontentarvi di quelli che usava Los'. Intendo colui che voi chiamate Re Rosso. Io sono l'ego, in un certo senso, e prendo il nome di Feemalo. Questo qui di fianco a me è Fumalo. È il nostro id.»

«Dunque quello che c'è dietro di voi deve essere Fimalo», dedusse Susannah. «E sarebbe il vostro superego?»

«Oh, fantastico!» si felicitò Fumalo. «Scommetto che sapete anche che Freud non si pronuncia come si scrive!» Rivolse a Susannah il suo sogghigno scostante. «Ma lo sai scrivere, cornacchia di New York a mezza gamba?»

«Non ci faccia caso», intervenne Feemalo. «Si è sempre sentito minacciato dalle donne.»

«Siete l'ego, l'id e il superego di Stephen King?» chiese Susannah.

«Ma che bella domanda!» si compiacque Feemalo.

«Ma che domanda stupida!» la censurò Fumalo. «I tuoi genitori hanno avuto per caso figli sopravvissuti, Cornacchia?»

«Non ti conviene sfidarmi a dirsele», lo mise in guardia Susannah, «perché se tiro fuori Detta Walker ti stendo subito.»

«Io non ho niente a che fare con sai King a parte essermi impossessato per breve tempo di alcune delle sue caratteristiche fisiche», disse King Arbitro. «E mi pare di capire che il tempo breve è in realtà tutto il tempo che avete voi. Non ho particolare affetto per la vostra causa e non ho intenzione di darmi da fare per aiutarvi, darmi troppo da fare, se vogliamo, d'altra parte capisco che voi due siete in larga misura responsabili dell'allontanamento di Los'. Poiché mi teneva prigioniero e mi trattava poco meglio di un buffone di corte, per non dire la bertuccia di casa, non mi è dispiaciuto affatto vederlo andar via. Se posso vi aiuterò, almeno un poco, però non mi affaticherò per farlo. Mettiamolo subito in chiaro, come avrebbe detto il vostro compianto amico Eddie Dean.»

Susannah cercò di non fare una smorfia a quelle parole, ma provò dolore. Molto dolore.

Come già in precedenza, Feemalo e Fumalo si erano girati a guardare Fimalo che parlava. Ora tornarono a rivolgersi a Roland e Susannah.

«L'onestà è la miglior politica», dichiarò Feemalo con un'espressione serafica. «Cervantes.»

«I bugiardi abbondano», ribatté Fumalo con un sorriso cinico. «Anonimo.»

«C'era una volta in cui Los' ci costringeva a dividerci in sei o anche in sette», riprese Feemalo, «e solo perché faceva male. Ma neppure noi potevano andare via più di chiunque altro qui al castello, perché aveva disposto una cinta mortale intorno alle mura.»

«Pensavano che prima di andarsene ci avrebbe uccisi tutti», disse Fumalo accantonando per un momento il suo sfrontato cinismo. Aveva assunto l'espressione allungata e introspettiva di chi sta evocando una sciagura forse evitata per un nonnulla.

«E tuttavia sono moltissimi quelli che ha ucciso», riprese Feemalo. «Ha decapitato il suo ministro di stato.»

Fumalo: «Che era marcio di sifilide e non aveva idea di quello che gli stava succedendo più di un maiale al mattatoio, purtroppo».

Feemalo: «Ha schierato tutto il personale della cucina e le donne di fatica...»

Fumalo: «Tutti coloro che erano stati molto leali con lui, più che leali...»

Feemalo: «E gli ha costretti a prendere il veleno davanti a lui. Avrebbe potuto ucciderli nel sonno se avesse voluto...»

Fumalo: «E solo con la forza del pensiero».

Feemalo: «Invece li ha costretti a prendere il veleno. Veleno per topi. Ne ingoiarono grossi bocconi marrone e morirono tra le convulsioni davanti al trono da cui lui li guardava...»

Fumalo: «Trono che è fatto di teschi, sappiate...»

Feemalo: «Se ne stava seduto lì con il gomito sul ginocchio e il pugno sotto il mento, come un uomo perso in profondi pensieri, magari come quadrare il cerchio o come trovare il Numero Primo Definitivo, mentre li guardava contorcersi e dibattersi e vomitare sul pavimento sulla Sala delle Udienze».

Fumalo (con una punta di entusiasmo che Susannah trovò insieme libidinoso ed estremamente repellente): «Alcuni sono morti invocando acqua. Era un veleno che faceva venire sete. Aye! E pensavamo che poi sarebbe toccata a noi!»

A questo punto Feemalo tradì finalmente, se non proprio collera, almeno un sintomo di contrarietà. «Vuoi lasciarmi finire quello che ho da dire così costoro potranno proseguire per la loro strada o tornare indietro secondo la loro volontà?»

«Prepotente come sempre», brontolò Fumalo chiudendosi in un silenzio imbronciato. Sopra di loro i corvi litigavano per la conquista della posizione più vantaggiosa da dove osservarli con i loro occhietti famelici. Nella speranza di ricavare un buon pasto da quelli che non se ne andranno, pensò Susannah.

«Aveva sei delle Sfere del Mago superstiti», riprese Feemalo. «E quando voi eravate ancora a Calla Bryn Sturgis, in esse vide qualcosa che portò a compimento la sua follia incipiente. Noi non sappiamo bene che cosa fosse, perché noi non abbiamo visto, ma abbiamo idea che sia stata la vostra vittoria non solo al Calla ma anche dopo, ad Algul Siento. Se è così, quella è stata la fine delle sue trame per far crollare la Torre da lontano, con l'aggressione sferrata ai Vettori.»

«Ma certo che è stato quello», interloquì in tono pacato Fimalo e ancora una volta i due Stephen King che si trovavano sul ponte si girarono verso di lui. «Non può essere stato altro. A portarlo sull'orlo della follia furono all'inizio due desideri in conflitto tra loro: far crollare la Torre e arrivarci prima che ci arrivassi tu, Roland, e salissi fino alla cima. Distruggerla... o dominarla. Non sono nemmeno sicuro che gli sia importato più che tanto capirla. Gli interessava più che altro anticiparti in qualcosa che volevi tu e portartela via. Sono cose come questa ad appagarlo.»

«Ti farà sicuramente piacere quanto abbia sparlato di te e maledetto il tuo nome nelle ultime settimane prima di distruggere i suoi preziosi giocattoli», aggiunse Fumalo. «Come sia giunto a temerti nei limiti in cui può temere.»

«Non a lui», obiettò Feemalo e con non poca malinconia, sembrò a Susannah. «Non farà affatto piacere a lui. Non ha sentimenti nella vittoria come non ne ha nella sconfitta.»

«Quando il Re Rosso ha visto che Algul era destinato a soccombere», continuò Fimalo, «ha capito che i Vettori ancora esistenti si sarebbero rigenerati. Peggio! Che con il tempo i due Vettori rimasti avrebbero ricreato gli altri, riproducendoli miglio dopo miglio e ruota dopo ruota. Dovesse accadere, allora...»

Roland stava annuendo. Nei suoi occhi Susannah scorse un'espressione del tutto nuova: felice sorpresa. Forse non è vero che non sa vincere, pensò. «Allora ciò che è andato avanti potrebbe tornare indietro», disse il pistolero. «Forse il Medio-Mondo e l'Entro-Mondo.» Fece una pausa. «Forse persino Gilead. La luce. Il Bianco.»

«Senza forse», puntualizzò Fimalo. «Poiché il ka è una ruota e se la ruota non è rotta, sempre girerà. A meno che il Re Rosso possa diventare o il Signore della Torre o il suo Signor Alto Giustiziere, tutto ciò che era inevitabilmente tornerà.»

«Follia», sentenziò Fumalo. «Follia distruttiva, per la precisione. Ma naturalmente il Grande Rosso è sempre stato il lato folle di Gan.» Rivolse a Susannah un odioso sorriso compiaciuto e disse: «Stiamo parlando di Frooood, Lady Cornacchia».

«E dopo che le Sfere furono distrutte ed ebbe inizio la mattanza...» continuò Feemalo.

«È questo che è necessario che voi capiate», interferì Fumalo. «Posto naturalmente che non abbiate testa troppo dura da assimilare il concetto.»

Fimalo riprese il filo e ancora una volta gli altri due si girarono verso di lui. «Compiuti questi atti, uccise se stesso.»

«Lo ha fatto con un cucchiaio?» domandò Roland. «Perché questa è la profezia che udimmo io e i miei amici da piccoli. Era contenuta in una poesiola.»

«Oh sì», confermò Fimalo. «Credo che abbia usato il cucchiaio per tagliarsi la gola, poiché aveva il bordo affilato (come certi piatti: il ka è una ruota e torna sempre nel punto da cui è partito), ma lo inghiottì. Lo inghiottì. Ma ci pensate? Grandi fiotti di sangue gli uscirono dalla bocca. Getti! Poi montò sul più grande dei cavalli grigi, quello che chiama Nis, da nome del paese del sonno e dei sogni, e partì a sud-est nelle terre bianche di Empathica, con il fagottino del suo bagaglio legato sulla sella davanti a sé.» Sorrise. «Ci sono riserve di cibo in abbondanza qui, ma non ne aveva certo bisogno lui, come avrete capito. Los' non mangia più.»

«Un momento, chiedo una sospensione», interruppe Susannah levando le mani nel gesto della T (lo aveva imparato da Eddie, ma non se ne rendeva più conto). «Se ha ingoiato un cucchiaio affilato e si è squarciato lo stomaco oltre che strozzarsi...»

«Lady Cornacchia comincia a vedere la luce!» esultò Fumalo agitando le mani verso il cielo.

«...com'è possibile che faccia qualcosa?»

«Los' non può morire», le rispose Feemalo, come si spiegano le cose a una bambina di tre anni. «E voi...»

«Voi poveri scimuniti...» elaborò con gaudente perfidia il suo compagno.

«Voi non potete uccidere un uomo che è già morto», finì Fimalo. «In precedenza, Roland, le tue pistole avrebbero potuto stroncarlo...»

Roland annuiva. «Tramandate di padre in figlio, con le canne ricavate da Excalibur, la grande spada di Arthur Eld. Sì, anche questo c'era nella profezia. Come naturalmente sapeva anche lui.

«Ora si è reso invulnerabile al loro potere. Ora è Dis-morto.»

«Abbiamo motivo di credere che sia stato esiliato su un balcone della Torre», disse Roland. «Dis-morto o no, non avrebbe mai potuto arrivare fin lassù in cima senza un sigul dell'Eld; sicuramente sapeva anche questo, se conosceva così bene la profezia.»

Sulle labbra di Fimalo c'era un cupo sorriso. «Aye, ma come Orazio difese il ponte in una storia che si racconta nel mondo di Susannah, così ora Los', il Re Rosso, tiene la Torre. Ha trovato come entrarvi, ma non può arrivare fino alla sommità. Ma finché è lui a reggerla, non ci puoi salire nemmeno tu.»

«A quanto pare il vecchio Re Rosso non era poi matto del tutto», osservò Feemalo.

«Matto come una volpe!» fece eco Fumalo. Si batté la tempia con un'espressione solenne... poi scoppiò a ridere.

«Ma se andate avanti», continuò Fimalo, «gli porterete i sigul dell'Eld di cui ha bisogno per prendere possesso di ciò che ora lo tiene prigioniero.»

«Dovrà prima strapparmeli», ribatté Roland. «Strapparceli.» Lo disse senza enfasi, come commentasse il clima.

«Vero», gli concesse Fimalo, «però pensaci, Roland. Tu non puoi ucciderlo con quelle pistole, ma c'è la possibilità che lui te le sottragga, perché la sua mente è subdola e la sua mano svelta. Se ci riuscisse... be'! Immagina un re morto e per di più pazzo in cima alla Torre Nera, in possesso di quella coppia di antiche, favolose pistole. Da lassù potrebbe dominare, ma io credo che data la sua follia, sceglierebbe di distruggere. La qual cosa sarebbe in grado di fare, con o senza i Vettori.»

Fimalo li osservò serio dal punto in cui si era fermato, prima del ponte.

«Poi», aggiunse, «sarebbero solo tenebre.»

 

4

 

Ci fu una pausa durante la quale tutti i presenti rifletterono su quella prognosi. Poi prese la parola Feemalo, in tono quasi di scuse: «Il prezzo potrebbe non essere molto alto se considerassimo solo questo mondo, che potremmo chiamare Torre Cardine, poiché la Torre Nera esiste qui non nella forma di una rosa, come in molti altri, o di una tigre immortale, come in alcuni, o il cane Rover come almeno in uno...»

«Un cane di nome Rover?» si meravigliò Susannah.

«Signora, hai l'immaginazione di un legno mezzo bruciato», l'apostrofò con disgusto Fumalo.

Feemalo non gli prestò attenzione. «Nel nostro mondo, la Torre è se stessa. Nel mondo in cui tu sei stato soprattutto in questi ultimi tempi, Roland, le specie sono ancora per la maggior parte sane e molte esistenze si conducono nella letizia. Ci sono ancore risorse e speranza. Correresti il rischio di distruggere quel mondo assieme a questo e con esso gli altri mondi che sai King ha sfiorato con la sua immaginazione e da cui ha preso ispirazione? Perché non è stato lui a crearli, sai? Non basta sbirciare nell'ombelico di Gan per diventare a lui uguale, per quanto possano illudersi molti creativi. Rischieresti tutto questo?»

«Stiamo solo chiedendo, non stiamo cercando di convincerti», tenne a precisare Fimalo. «Ma la verità è chiara: ora questa ricerca è solo tua, pistolero. È un fine che appartiene solo a te. Nulla ti spinge a proseguire. Quando sarai passato oltre questo castello e sarai entrato nelle terre bianche, tu e i tuoi amici sarete andati oltre il ka. E non siete costretti a farlo. Tutto quello che avete passato era stato messo in moto perché poteste salvare i Vettori, e salvandoli, poteste assicurare vita eterna alla Torre, l'asse sul quale ruotano tutti i mondi e tutta la vita. Tanto è stato compiuto. Se tornate indietro ora. Il Re morto resterà intrappolato per sempre dove si trova adesso.»

«Questo è quello che dici tu», replicò Susannah con una malagrazia degna di sai Fumalo.

«Che dica il vero o dica il falso», dichiarò Roland, «io continuerò. Perché l'ho giurato.»

«A chi hai fatto il tuo giuramento?» proruppe Fimalo. Per la prima volta da quando si era fermato davanti al ponte, separò le mani e le usò per spingersi i capelli all'indietro. Fu un gesto di scarsa rilevanza ma espresse con assoluta eloquenza tutta la sua frustrazione. «Perché non c'è profezia di tale promessa; te lo posso ben dire!»

«È giusto che non ci sia, visto che è una promessa che ho fatto a me stesso e ho intenzione di mantenerla.»

«Quest'uomo è pazzo come Los' il Re Rosso», proclamò Fumalo non senza rispetto.

«Va bene», sospirò Fimalo e tornò a giungere le mani davanti a sé. «Io ho fatto quello che potevo.» Indicò con la testa i suoi due altri terzi, che lo stavano osservando con attenzione.

Feemalo e Fumalo si piegarono su un ginocchio: Feemalo su quello destro, Fumalo sul sinistro. Sollevarono i coperchi delle ceste che avevano portato e le inclinarono in avanti. (A Susannah passò per la mente il modo in cui le vallette di Il prezzo è giusto e di Concentration esibivano i premi.)

In una c'era da mangiare: arrosti di maiale, pollo e manzo e grandi e rosee fette di prosciutto. A quella vista Susannah sentì la bocca dello stomaco che le si dilatava come preparandosi a inglobare tutto quanto e fu solo con un grande sforzo che impedì a un gemito sensuale di uscirle dalla gola. Le si inondò la bocca di saliva e alzò una mano per asciugarsi le labbra. Avrebbero visto che cosa faceva, non aveva certo modo di nasconderlo, ma avrebbe almeno negato loro la soddisfazione di avere la prova visibile della sua fame spalmata su labbra e mento. Oy abbaiò, ma restò seduto vicino allo stivale sinistro del pistolero. Dentro l'altra cesta c'erano pesanti maglioni di lana, uno verde e uno rosso: i colori del Natale.

«Ci sono anche pesanti indumenti di biancheria intima, giacconi, sabotte e guanti imbottiti di pelo», li informò Feemalo. «In questo periodo dell'anno a Empathica fa un freddo terribile e vi aspettano mesi di cammino.

«Appena fuori del villaggio abbiamo lasciato per voi una slitta leggera in alluminio», disse Fimalo. «Potrai caricarla su quel vostro carretto e usarla per trainare la signora e la vostra roba quando arriverete ai campi innevati.»

«Vi domanderete senza dubbio perché facciamo tutto questo, visto che disapproviamo il vostro viaggio», intervenne Feemalo. «Il fatto è che vi siamo grati per la nostra sopravvivenza...»

«Credevamo davvero che per noi fosse finita», aggiunse Fumalo. «Il quarterback è cotto, avrebbe detto Eddie.»

E anche questo le fece male... ma non tanto quanto guardare quegli arrosti succulenti. Non tanto quanto immaginare l'effetto di farsi passare uno di quei voluminosi maglioni per la testa e sentirsi ricadere l'orlo a metà coscia.

«La mia decisione è stata di cercare di dissuadervi dal proseguire se ne fossi stato capace», confessò Fimalo, l'unico che parlava di sé alla prima persona singolare, aveva notato Susannah. «E se non ci fossi riuscito, vi avrei rifornito di quanto vi sarà necessario per andare avanti.»

«Non puoi ucciderlo!» proruppe Fumalo. «Possibile che non lo vedi, dannata macchina di morte con la testa di legno, possibile che non lo capisci? L'unica cosa che ti può succedere è che per eccesso di passione ti consegni alle sue mani mortali! Come fai a essere così stu...»

«Taci», lo redarguì benevolo Fimalo e Fumalo si zittì all'istante. «Ha preso la sua decisione.»

«Voi che cosa farete?» domandò Roland. «Dopo che noi saremo ripartiti?»

I tre identici si strinsero nelle spalle in perfetta sincronia, ma fu Fimalo a rispondere, l'uffi che si era definito superego. «Aspetteremo qui», disse. «Vedremo se la matrice della creazione vivrà o morirà. Cercheremo intanto di riattare Le Casse e restituirgli almeno parte del suo antico splendore. Un tempo era un luogo bellissimo. Potrà ridiventare bello. E ora credo che il nostro conciliabolo sia finito. Prendete i vostri doni con i nostri ringraziamenti e auguri.»

«Auguri riluttanti», tenne a sottolineare Fumalo, che però sorrise. Sulle sue labbra fu un sorriso insieme smagliante e inatteso.

Susannah si tratteneva a stento, affamata com'era di cibi freschi (di carne fresca), moriva soprattutto dalla voglia di mettere le mani su quei maglioni e gli altri indumenti pesanti. Per quanto avessero seriamente intaccato le loro scorte alimentari (e sicuramente le avrebbero consumate tutte prima di aver attraversato il territorio che gli uffi chiamavano Empathica, nel fondo del Fior di Taxi c'era ancora un discreto quantitativo di scatolame, fagioli e tonno e carne; e al momento avevano il ventre pieno. Era il freddo, che la stava uccidendo. Almeno quella era la sensazione che provava: il freddo che le si incuneava nel corpo avanzando verso il cuore, un doloroso centimetro per volta.

Due cose la fermarono. Una fu rendersi conto che un solo passo sarebbe bastato a spazzar via quel poco che le restava della sua forza di volontà; si sarebbe precipitata fin sul ponte e si sarebbe buttata davanti alla capiente cesta di vestiti, mettendosi a frugare come una casalinga assatanata all'annuale fiera del bianco. Compiuto il primo passo, nulla l'avrebbe più fermata. E perdere la forza di volontà non sarebbe stato nemmeno la conseguenza peggiore; avrebbe perso anche l'autostima per la quale Odetta Holmes aveva lottato per tutta la vita, a dispetto della sabotatrice annidata nella sua mente.

Ma forse nemmeno quello sarebbe bastato a trattenerla. Fu invece il ricordo del giorno in cui avevano visto il corvo con la striscia verde nel becco, il corvo che aveva gracchiato cru, cru! invece di cra, cra! Semplice erba diavola, vero, ma comunque verde. Un vegetale. Roba viva. Quello era stato il giorno in cui Roland l'aveva ammonita a tenere la bocca chiusa e le aveva detto... che cosa? Prima della vittoria viene la tentazione. Mai avrebbe sospettato che la più grande tentazione della sua vita le si sarebbe presentata nella forma di un maglione da pescatore in punto a catenella, ma...

Comprese all'improvviso qualcosa che il pistolero doveva aver saputo se non fin dal principio, certamente poco dopo l'apparizione dei tre Stephen King: davanti a sé aveva un mistificazione. Non sapeva che cosa ci fosse veramente in quelle ceste di vimini, ma dubitava più che mai che fosse cibo e indumenti.

Si calmò.

«Allora?» chiese Fimalo in tono paziente. «Venite a prendere i doni che ho portato? Dovete venire voi se li volete, perché io non posso superare il centro del ponte. Davanti a dove si sono fermati Feemalo e Fumalo c'è la linea di morte del Re. Voi potete andare e venire. Noi no.»

«Ti ringraziamo della tua generosità, sai», gli rispose Roland, «ma abbiamo di che nutrirci e troveremo di che vestirci più avanti, prima delle nevi. E poi non fa tanto freddo.»

«No», concordò Susannah sorridendo alle tre facce identiche... e identicamente stupefatte. «Proprio no.»

«Noi ripartiamo», annunciò Roland e s'inchinò di nuovo.

«Diciamo grazie, diciamo che il futuro vi sia gradito», aggiunse Susannah e di nuovo distese le sottane invisibili.

Cominciò a girarsi dall'altra parte e Roland con lei. Fu allora che Feemalo e Fumalo, ancora inginocchiati affondarono le mani nelle ceste aperte.

Susannah non aspettò istruzioni da parte di Roland, neppure un'unica parola di allerta. Estrasse la pistola dalla cintura e uccise quello di sinistra, Fumalo, nel momento in cui prelevava dalla sua cesta una pistola argentata a canna lunga. A essa era annodato quello che sembrava un fazzoletto. Roland estrasse dalla fondina, fulmineo come sempre, e sparò un solo colpo. Sopra di loro i corvi si alzarono in volo gracchiando impauriti e dipingendo per un momento di nero il cielo azzurro. Feemalo, che a sua volta aveva impugnato una pistola d'argento, si accasciò lentamente sulla sua cesta di cibarie con una morente espressione di sorpresa sul volto e un foro di pallottola al centro della fronte.

 

5

 

Fimalo era ancora al suo posto, dall'altra del ponte. Teneva ancora le mani giunte davanti a sé, ma non aveva più le sembianze di Stephen King. Ora aveva la faccia lunga e ingiallita di un vecchio che muore lentamente e non in buona salute. I capelli vigorosi e neri erano ora color grigio sporco. Il cuoio capeliuto era costellato di squame eczemiche. Fronte, guance e mento erano disseminati di bubboni e piaghe aperte, alcune purulente e altre sanguinanti.

«Che cosa sei in realtà?» gli chiese Roland.

«Un umano, come voi», rispose rassegnato Fimalo. «Rando Thoughtful era il mio nome nei miei anni da ministro di stato del Re Rosso. Un tempo però ero semplicemente Austin Cornwell, dello stato di New York. Non il Mondo Cardine, mi spiace dover ammettere, ma di un altro. Ci fu un tempo in cui fui direttore del Niagara Mall e prima di allora ebbi un notevole successo in pubblicità. Vi interesserà sapere che ho lavorato sia per conto della Nozz-A-La, sia della Takuro Spirit.»

Susannah non tenne conto di quel bizzarro e inatteso curriculum. «Dunque non era vero che aveva fatto decapitare il suo braccio destro», notò. «E i tre Stephen King?»

«Una malia», rispose il vecchio. «Avete intenzione di uccidermi? Coraggio. Vi chiedo solo che sia una cosa rapida. Non sto bene, come sicuramente avrete visto.»

«C'era niente di vero in quello che ci hai raccontato?» volle sapere Susannah.

I suoi occhi vecchi la guardarono con liquida meraviglia. «Tutto vero», rispose e avanzò sul ponte, dove giacevano altri due vecchi, quelli che senza dubbio erano stati un tempo i suoi assistenti. «Tutto era vero eccetto, se vogliamo, per una sola menzogna... e queste.» Scalciò le due ceste rovesciandone il contenuto.

Susannah lanciò un involontario grido di orrore. Oy fu in piedi in un lampo davanti a lei, testa abbassata e zampe divaricate, nel suo classico assetto protettivo.

«È tutto a posto», lo rassicurò Susannah con la voce che ancora le tremava. «Sono rimasta solo... sorpresa.»

La cesta di vimini che sembrava contenesse ogni sorta di arrosti era in realtà piena di membra umane in decomposizione: era davvero maiale a due gambe e in condizioni pessime oltre a tutto. Le carni erano quasi nere e brulicavano di larve di mosche.

Nell'altra cesta non c'erano vestiti. Quello che Fimalo aveva rovesciato era un nodo luccicante di serpenti in agonia. I loro piccoli occhi erano opachi, le lingue biforcute più che saettare scivolavano fiaccamente fuori delle loro bocche; alcuni avevano già smesso di muoversi.

«Non avete idea di quanto li avreste rinvigoriti se ve li foste premuti sulla pelle», rimpianse Fimalo.

«Non ti aspettavi sul serio che accadesse, vero?» lo apostrofò Roland.

«No», ammise il vecchio. Si sedette sul ponte con un sospiro stanco. Uno dei serpenti cercò di strisciargli in grembo e lui lo respinse con un gesto insieme distratto e impaziente. «Ma avevo i miei ordini, ho fatto quel che dovevo.»

Susannah guardava i cadaveri degli altri due non potendo resistere al loro fascino macabro. Feemalo e Fumalo, divenuti ora solo due vecchi defunti, andavano marcendo a rapidità soprannaturale. La pelle incartapecorita di entrambi si sgonfiava aderendo allo scheletro e riempiendosi di lenti rivoli di pus. Sotto il suo sguardo, le orbite del teschio di Feemalo affiorarono come minuscoli periscopi, conferendo per un momento al cadavere un'espressione di choc. Alcuni dei serpenti salirono strisciando sui cadaveri putrescenti. Altri rientravano nelle cesta delle membra fracide senza dubbio alla ricerca del calore che c'era sul fondo dell'ammasso. Il processo di putrefazione sprigionava una propria febbre temporanea e Susannah pensò che lei stessa avrebbe provato la tentazione di trarne giovamento se avesse potuto. Fosse stata una serpe, naturalmente.

«Avete intenzione di uccidermi?» chiese Fimalo.

«Nay», rispose Roland, «perché i tuoi doveri non sono finiti. Ne hai un altro in arrivo.»

Fimalo rialzò la testa con una luce di interesse nei vecchi occhi catarrosi. «Tuo figlio?»

«Figlio mio e del tuo padrone. Vorresti passargli una parola da parte mia durante il vostro conciliabolo?»

«Se sarò vivo per accontentarti, certamente.»

«Digli che io sono vecchio e astuto, mentre lui è solo un pivello. Digli che se si tiene in disparte, potrà vivere ancora un po' con i suoi sogni di vendetta... anche se che cosa ho fatto per suscitare il suo desiderio di vendetta, proprio non so. E digli che se mi verrà dietro, lo ucciderò come intendo uccidere il suo rosso genitore.»

«O tu ascolti e non odi oppure odi e non credi», ribatté Fimaio. Ora che il suo stratagemma era stato smascherato (niente di così ammaliante come un uffi, pensò Susannah, bensì un ex pubblicitario riciclato dello stato di New York), sembrava indicibilmente spossato. «Non puoi uccidere una creatura che ha ucciso se stessa. Né puoi entrare nella Torre Nera, perché c'è un solo ingresso ed è governato dal balcone sul quale è imprigionato Los'. Il quale ha a sua disposizione armi a sufficienza. Già solo le bocce ti scoverebbero e dilanierebbero prima che tu abbia attraversato solo per metà il campo di rose.»

«È preoccupazione nostra», tagliò corto Roland e Susannah rifletté che raramente il pistolero aveva trovato un'espressione più azzeccata: lei aveva già cominciato a preoccuparsi. «Quanto a te, passerai il mio messaggio a Mordred quando lo vedrai?»

Fimalo rispose con un gesto affermativo.

Roland scosse la testa. «Niente gesticolazioni con me, camerata... sentiamolo dalla bocca.»

«Passerò il tuo messaggio», disse Fimalo e aggiunse: «Se lo vedo e se terremo conciliabolo».

«Lo terrete. 'Giorno a te, signore.» Roland cominciò a voltarsi, ma Susannah lo trattenne per un braccio.

«Giurami che tutto quello che ci hai raccontato è vero», pretese dal brutto vecchio seduto sul ponte acciottolato, sotto lo sguardo freddo dei corvi che stavano tornando a occupare le loro precedenti postazioni. Che cosa intendesse scoprire o accertare tramite questa richiesta, non lo sapeva neppure lei. Sarebbe stata capace di sbugiardare quell'uomo se avesse mentito? Probabilmente non meglio di quanto avrebbe potuto prima che si fosse rivelato per ciò che era. Ma insisté lo stesso. «Giura sul nome di tuo padre e anche sul suo volto.»

Il vecchio levò la mano destra, rivolse il palmo verso Susannah. Aveva piaghe aperte anche lì. «Giuro sul nome di Andrew John Cornwell, di Tioga Springs, New York. E anche sul suo volto. Il re di questo castello è veramente impazzito e veramente ha distrutto le Sfere del Mago di cui era entrato in possesso. Obbligò veramente i suoi sudditi ad avvelenarsi e restò veramente a guardarli morire.» Piegò la mano verso la cesta di membra recise. «Dove pensi che mi sia procurato quelle, Lady Cornacchia? Al magazzino dei pezzi di ricambio?»

Susannah lo ascoltava in silenzio.

«È veramente partito alla volta della Torre Nera. È come il cane di qualche fiaba antica, che per ripicca impedisce ad altri di trarre vantaggio da qualcosa in cui lui stesso ha fallito. E non vi ho veramente mentito sul contenuto di queste ceste. Io vi ho semplicemente mostrato i doni e ho lasciato che foste voi a trarre le vostre conclusioni.» Il cinico compiacimento del suo sorriso spinse quasi Susannah a ricordargli che almeno Roland aveva immediatamente subodorato il suo inganno. Preferì tacere.

«Vi ho mentito una sola volta», dichiarò l'ex Austin Cornwell. «Quando ho raccontato d'essere stato decapitato.»

«Soddisfatta, Susannah?» chiese Roland.

«Sì», rispose lei, anche se non lo era, non del tutto. «Andiamo.»

«Sali sul carretto, allora e senza mostrargli mai la schiena. È infido.»

«Dillo a me», mormorò Susannah mentre montava sul Fior di Taxi.

«Lunghi giorni e piacevoli notti», augurò loro l'ex sai Cornwell da dove era rimasto seduto in mezzo ai serpenti in agonia. «Che l'Uomo Gesù protegga voi e tutta la vostra clan-fam. E che possiate trovare il buon senso prima che sia troppo tardi per il buon senso e state alla larga dalla Torre Nera.»

 

6

 

Tornarono sui loro passi fino all'incrocio dove avevano abbandonato il Sentiero del Vettore per recarsi al castello del Re Rosso e qui Roland si fermò a riposare per qualche minuto. Si era levata una bava di vento e lo striscione patriottico sbatacchiava. Susannah notò che ora era invecchiato e scolorito. I ritratti di Nixon, Lodge, Kennedy e Johnson erano stati deturpati da graffiti, vecchi a loro volta. Tutta la malia, quanto meno quella contorta creata dal Re Rosso, si era dissolta.

Giù le maschere, giù le maschere, pensò stancamente. È stata una bella festa, ma ora è finita... e su tutto domina la Morte Rossa.

Si toccò il brufolo di fianco alla bocca, poi si esaminò il polpastrello. Pensava di trovare sangue o pus o entrambi. Non c'era niente. E fu un sollievo.

«Quanto ti senti disposto ad accettare?» chiese a Roland.

«Quasi tutto», rispose lui.

«Dunque è là. Nella Torre.»

«Non nella Torre. È prigioniero fuori.» Sorrise. «C'è una grossa differenza.»

«Ah davvero? E che cosa gli farai?»

«Non lo so.»

«Credi che se potesse impossessarsi delle tue pistole, potrebbe rientrare nella Torre e salire fino in cima?»

«Sì.» La risposta era stata immediata.

«Che intenzioni hai?»

«Di non lasciargliele prendere.» Lo affermò come se dovesse essere un'ovvietà e Susannah si trovò costretta a concedergli che in fondo lo era. Tendeva a dimenticare quanto terribilmente letterale fosse Roland. Su tutto.

«Avevi pensato di tendere una trappola a Mordred, giù al castello.»

«Sì», ammise Roland, «ma visto quello che vi abbiamo trovato e anche quello che ci è stato raccontato, mi è sembrato più opportuno proseguire. Più semplice. Guarda.»

Si tolse di tasca l'orologio e ne aprì il coperchio. Osservarono insieme la corsa solitaria della lancetta dei secondi. Ma la velocità era la stessa di prima? Susannah non era in grado di stabilirlo, ma non le sembrava. Alzò gli occhi su Roland con le sopracciglia inarcate.

«In generale misura ancora il tempo come deve», spiegò Roland, «ma solo in generale. Credo che perda almeno un secondo ogni sei o sette giri. Forse da tre a sei minuti al giorno.»

«Non è molto.»

«No», concesse Roland riponendo l'orologio, «ma è un inizio. Che Mordred faccia come meglio crede. La Torre Nera è poco oltre le terre bianche e ho intenzione di arrivarci.»

Susannah capiva bene la sua ansia. Sperava solo che non lo spingesse all'imprudenza, altrimenti sarebbe venuto meno il vantaggio che gli dava l'inesperienza giovanile di Mordred Deschain. Se Roland avesse commesso l'errore giusto nel momento sbagliato, lei, lui e Oy non avrebbero forse mai visto la Torre Nera.

Le sue elucubrazioni furono interrotte da un concitato frullare d'ali alle loro spalle. Non del tutto confuso in quel frenetico sbatacchiare sortì un suono umano che cominciò come un lamento e presto si trasformò in strillo. Nonostante la distanza, l'orrore e il dolore che conteneva fu fin troppo evidente. Finalmente e fortunatamente il grido straziato si spense.

«Il ministro di stato del Re Rosso è entrato nella radura», disse Roland.

Susannah si girò a guardare il castello. Ne vedeva solo i bastioni rosso scuro. Fu ben contenta di non vedere più di così.

Mordred ha fa-fame, pensò. Le batteva forte il cuore e concluse di non aver mai provato tanto terrore in vita sua, nemmeno quand'era stata su quel letto di fianco a Mia partoriente, nemmeno nelle tenebre sotto Castello Discordia.

Mordred ha fa-fame... ma adesso si sentirà sazio.

 

7

 

Il vecchio che era venuto al mondo come Austin Cornwell e che avrebbe finito i suoi giorni come Rando Thoughtful sedeva nel cortile antistante il castello, davanti al ponte. I corvi attendevano sopra di lui, intuendo forse che le emozioni di quel giorno non erano ancora terminate. Thoughtful era al calduccio del giaccone alla marinara che indossava e, prima di uscire per il suo incontro con Roland e la donna cornacchia aveva mandato giù un sorso di brandy. Be'... forse non era andata proprio così. Forse erano stati Brass e Compson (altrimenti noti come Feemalo e Fumalo) a bere un sorso del miglior brandy del Re, mentre l'ex ministro di stato di Los' aveva scolato l'ultimo terzo della bottiglia.

Fatto sta che il vecchio si addormentò e l'arrivo di Mordred Tallone-Rosso non lo svegliò. Sedeva con il mento appoggiato al petto e un filo di saliva che gli usciva dalle labbra raggrinzite, simile a un bebè assopitosi sul seggiolone. Gli uccelli sui parapetti e i camminamenti erano più numerosi che mai. Avrebbero sicuramente spiccato il volo all'avvicinarsi del giovane principe, il quale però alzò lo sguardo su di loro e fece un gesto: la mano destra aperta passò rapida davanti al volto, si chiuse in un pugno e scese bruscamente. Aspettate, voleva dire.

Mordred si fermò al di qui del ponte e fiutò con delicatezza la carne marcescente. L'aroma era stato abbastanza invitante da condurlo lì nonostante sapesse che Roland e Susannah avevano proseguito il loro viaggio sul Sentiero del Vettore. Che quei due e il loro bimbolotto riprendessero in pace il loro cammino, aveva ragionato. Non era urgente guadagnare terreno. Magari più tardi. Più tardi il suo papà bianco avrebbe abbassato la guardia, anche solo per un momento, e sarebbe stato allora che Mordred lo avrebbe preso.

Per cena, sperava, ma si sarebbe tranquillamente anche accontentato del pranzo o della prima colazione. L'ultima volta che lo aveva visto, era solo (bimbo bello, bel bambino, porta pieno il tuo cestino) un infante. La creatura ferma davanti all'ingresso ad arco del castello del Re Rosso si era trasformato in un bambino di nove anni circa. Non un bel bambino, non di quelli che qualcuno (eccetto quella matta di sua madre) avrebbe definito grazioso. Il suo aspetto tuttavia aveva più a che fare con l'inedia che con la sua complicata eredità genetica. La faccia sotto il groviglio rinsecchito di capelli neri era svigorita e spolpata oltre misura. Sotto gli occhi azzurri da bombardiere che erano gli stessi occhi di Roland, aveva borse gonfie e viola. La pelle era devastata da ogni sorta di ulcere e ascessi. Questi malanni, come il foruncolo accanto alla bocca di Susannah, potevano essere la conseguenza del suo viaggio in territori inquinati, ma di sicuro vi aveva contribuito anche la dieta. Avrebbe potuto rifornirsi di scatolame prima di allontanarsi dal posto di blocco davanti all'imboccatura della galleria, visto che Roland e Susannah avevano lasciato viveri a sufficienza, ma non ci aveva pensato. Come Roland sapeva, quanto a tecniche di sopravvivenza era ancora alle prime armi. Le sole cose che Mordred aveva preso dalla baracca del posto di blocco erano un malconcia giacca da ferroviere in tela grezza e un paio di comode scarpe pesanti. Le scarpe in particolare erano state un buon colpo di fortuna, anche se nel corso del viaggio avevano quasi finito di andare a pezzi.

Fosse stato un umano o anche solo una creatura semiumana un po' più ordinaria, Mordred sarebbe morto nelle Badlands, con o senza giacca, con o senza scarponi. Poiché era ciò che era, quando aveva avuto fame aveva chiamato a sé i corvi e i corvi non avevano potuto far altro che ubbidire. I corvi erano schifosi da mangiare e gli insetti che richiamava da sotto le rocce riarse (e ancora leggermente radioattive) erano anche peggio, ma aveva ingoiato tutto. Un giorno aveva toccato la mente di una donnola e le aveva ordinato di avvicinarsi. Gli si era presentata una creatura rinsecchita e spelacchiata, essa stessa ai limiti della denutrizione, ma dopo uccelli e insetti per lui era diventata la più buona bistecca di questo mondo. Mordred si era trasformato nella sua altra realtà, aveva chiuso la donnola nell'abbraccio delle sue sette zampe e l'aveva succhiata e masticata finché di essa non era rimasto che uno straccio di pelliccia. Ne avrebbe divorate volentieri un'altra decina, ma solo una ne aveva trovata.

E adesso davanti a lui c'era una cesta piena di cibo. Era ben frollato, questo sì, ma perché lamentarsi? Anche le larve di mosca erano nutrienti. Ce n'era a sufficienza da sostenerlo fino ai boschi innevati a sud-ovest del castello, dove avrebbe trovato selvaggina a volontà.

Ma prima c'era quel vecchio.

«Rando», disse, «Rando Thoughtful.»

Il vecchio sobbalzò, borbottò qualcosa e aprì gli occhi. Per un momento guardò il bambino emaciato davanti a sé con un'espressione di assenza totale. Poi i suoi occhi catarrosi si riempirono di terrore.

«Mordred, figlio di Los'», mormorò cercando di sorridere. «Hile a te, Re che sarai!» Mosse inutilmente le gambe, accorgendosi in ritardo di essere seduto. Cercò di mettersi in piedi, ricadde pesantemente divertendo il bambino (era stato difficile trovare spunti esilaranti nel deserto di rocce e accolse questo con piacere), quindi riprovò. Al secondo tentativo ci riuscì.

«Non vedo cadaveri se non quelli di due che sembrano morti a un'età ancor maggiore della tua», commentò Mordred, guardandosi platealmente intorno. «Di certo non vedo pistoleri morti, né della varietà a gambe lunghe, né di quella a gambe scorciate.»

«Tu dici il vero e io dico grazie, naturalmente, ma ti posso spiegare, sai, e molto facilmente...»

«Oh, ma aspetta! Trattieni le tue spiegazioni, per quanto sicuramente eccellenti! Lasciami indovinare, invece! Sarà forse che i serpenti hanno legato il pistolero e la sua signora, serpenti grassi e lunghi, e che tu li hai trasferiti nel castello che ti è alle spalle per custodirli meglio?»

«Mio signore...»

«Se è così», continuò Mordred, «dovevano essere davvero numerosi i serpenti della tua cesta, perché ne vedo ancora parecchi là dentro. Alcuni dei quali si stanno sfamando con quella che doveva essere la mia cena.» Sebbene le membra amputate e già in putrefazione sarebbero state comunque la sua cena, almeno in parte, Mordred rivolse al vecchio uno sguardo pieno di rimprovero. «Allora, hai o non hai messo nel castello i due pistoleri?»

Il terrore sul volto del vecchio fu sostituito da rassegnazione. Mordred s'infuriò. Quello che voleva vedere sul viso di Thoughtful non erano né terrore né rassegnazione, bensì speranza. Che lui stesso gli avrebbe strappato via con comodo. La sua sagoma fremette. Per un istante il vecchio scorse il nerume informe che si annidava dentro il corpo da bambino e le sue molte zampe. Poi le sembianze umane ridiventarono stabili. Almeno per il momento.

Non fatemi morire urlando, pensò l'ex Austin Cornwell. Concedetemi almeno questo, dei. Che non debba morire urlando tra le grinfie di quella mostruosità.

«Tu sai che cosa è avvenuto qui giovin sai. È nella mia mente e quindi è nella tua. Perché non prendi il contenuto di quella cesta, anche i serpenti se ti aggrada, e non concedi a un vecchio quel poco di vita che ancora gli resta? Per l'amore di tuo padre, se non per te stesso. Io l'ho servito bene fino alla fine. Avrei potuto starmene semplicemente nascosto nel castello e lasciarli passare. Ho provato.»

«Non avevi alternative», rispose Mordred dall'altra parte del ponte. Senza sapere se fosse vero o no. Ma non gl'importava. Le carni morte erano solo nutrimento. Le carni vive e il sangue ancora ricco dell'aria dell'ultimo respiro di un uomo... ah, tutt'altra cosa. Erano banchetto da signori! «Mi ha lasciato un messaggio?»

«Aye, lo sai già.»

«Sentiamolo.»

«Perché non lo prendi dalla mia mente?»

Di nuovo quella fugace metamorfosi. Per un attimo non fu né bambino né ragno grande come un bambino; fermo all'altra estremità del ponte ci fu qualcosa che era un po' di entrambi. Nonostante gli luccicasse ancora sul mento la saliva che aveva sbavato nel sonno, sai Thoughtful si sentì prosciugare la bocca. Poi la versione bambino di Mordred si solidificò di nuovo nella sua giacca sbrindellata.

«Perché mi piace sentirlo da quel buco flaccido che hai per bocca», rispose.

Il vecchio si passò la lingua sulle labbra. «Va bene, se così ti è gradito. Ha detto che lui è scaltro mentre tu sei giovane e non hai nemmeno un briciolo di astuzia in te. Ha detto che se non te ne stai al posto tuo, ti staccherà la testa dal collo. Ha detto che vuole mostrarla al tuo padre rosso prigioniero sul suo balcone.»

Era un bel po' di più di quello che Roland aveva detto veramente (come noi dovremmo sapere, visto che eravamo presenti), più che abbastanza per Mordred.

Ma non abbastanza per Rando Thoughtful. Forse solo dieci giorni prima sarebbe servito al proposito del vecchio, che era quello di indurre il bambino a ucciderlo in fretta. Ma Mordred era cresciuto in un lampo e ora dominò il suo primo impulso, che era quello di lanciarsi sul ponte trasformandosi ancor prima di essere nella corte del castello e strappare la testa di Rando Thoughtful con una sola sferzata di una zampa pelosa. Guardò invece i corvi, ora a centinaia, e i corvi guardarono lui, attenti come allievi in classe. Il bambino agitò le braccia come fossero ali, poi indicò il vecchio. Subito l'aria si riempì del vortice dei corvi che spiccavano il volo. Il ministro del Re si girò per darsi alla fuga, ma riuscì a compiere un solo passo prima che i corvi piombassero su di lui in una nuvola d'inchiostro. Allora alzò le braccia per proteggersi il volto dagli uccelli che gli si posavano sulla testa e le spalle trasformandolo in uno spaventapasseri. La mossa istintiva non servì; altri gli si appollaiarono sui gomiti sollevati finché il peso stesso di uno stormo così ingente non lo costrinse ad abbassarli. Allora una miriade di becchi cominciò a spolpargli la faccia, spillando sangue dalle ferite, numerose e minuscole come le punture di un tatuaggio.

«No!» urlò Mordred. «Lasciate la pelle a me... ma voi prendetevi pure gli occhi.»

Fu allora che, mentre i corvi affamati gli strappavano gli occhi dalle orbite, l'ex ministro di stato mandò quell'ululato che Roland e Susannah udirono ormai nella periferia del villaggio. Gli uccelli che non trovavano dove posarglisi addosso, volteggiavano intorno alla loro vittima come un nembo vivente. Gli altri lo sollevarono di peso e lo trasportarono nell'aria fino al bambino, che intanto si era acquattato al centro del ponte. Per il momento scarponi e vecchia giacca erano stati abbandonati dall'altra parte del fossato. Ad aspettare sai Thoughtful, ritto sulle zampe posteriori e ad annaspare nell'aria con quelle anteriori, con la voglia rossa ben visibile sul ventre peloso, c'era dan-tete, il Piccolo Re Rosso.

Il vecchio volò al suo destino, orbato e urlante. Spazzava l'aria con le mani protese in un inutile tentativo di difesa con le zampe anteriori del ragno gliene afferrò una, se lo portò alle fauci irsute e gliela staccò con uno schiocco.

Dolce!

 

8

 

Quella sera, lontano dall'ultima di quelle strampalate abitazioni così strette, così brutte, Roland si fermò davanti a quella che probabilmente era stata una piccola fattoria. Davanti a sé aveva le rovine della casa colonica e stava annusando l'aria.

«Che cosa c'è, Roland? Cosa?» «Senti l'odore del legno di quella casa, Susannah?» Annusò anche lei. «Per la verità, sì... e allora?» Roland si girò verso di lei sorridendo. «Se ne sentiamo l'odore, vuol dire che possiamo bruciarlo.»

Era vero. Ebbero difficoltà ad accendere il fuoco, nonostante l'ausilio dei trucchi di un consumato viaggiatore come Roland e di mezzo barattolo di Sterno, ma alla fine ci riuscirono. Susannah si sedette il più vicino possibile alle fiamme, girandosi a intervalli regolari per tostarsi ben bene da tutte le parti, godendo prima del sudore che le inondò il volto e il seno, poi quello che le bagnò la schiena. Si era dimenticata il piacere di stare al caldo e continuò ad alimentare di legna il fuoco fino a farne un falò crepitante. Agli animali selvatici lungo il Sentiero del Vettore convalescente, quel fuoco doveva sembrare una cometa ancora ardente caduta sulla terra. Accanto a lei Oy, con le orecchie ritte, guardava le fiamme come ipnotizzato. Susannah continuò ad attendersi qualche obiezione da parte di Roland - che smettesse una buona volta di gettare legna in quel rogo e che lo lasciasse consumarsi, per l'amore di suo padre - ma non ne vennero. Il pistolero se ne rimase tranquillamente seduto a oliare a uno a uno i pezzi delle rivoltelle che aveva smontato. Quando il fuoco diventò troppo caldo, si spostò un po' più indietro. Nella luce mutevole la sua ombra ballò una magra, dinoccolata Commala.

«Pensi di poter sopportare un altro paio di notti al freddo?» le chiese alla fine.

Susannah annuì. «Se è necessario.»

«Quando cominceremo a salire verso le nevi, farà freddo sul serio», l'avvertì lui. «E sebbene non possa prometterti che resteremo senza fuoco per una sola notte, non credo che dovremo rinunciarci per più di due.»

«Tu pensi che ci sarà più facile prendere della selvaggina se non accendiamo un fuoco, vero?»

Roland annuì e cominciò a rimontare le pistole.

«Troveremo selvaggina già dopodomani?»

«Sì.»

«Come lo sai?»

Lui rifletté, poi scosse la testa. «Non te lo so dire... ma lo so.»

«Ne senti l'odore?»

«No.»

«Tocchi le loro menti?»

«Nemmeno quello.»

Susannah lasciò perdere. «Roland, non c'è il pericolo che questa notte Mordred ci scateni contro gli uccelli?»

Lui sorrise e indicò le fiamme. Sotto di esse un letto di tizzoni ardenti pulsava come l'alito di un drago. «Non si avvicineranno al tuo rogo.»

«E domani?»

«Domani saremo lontani da Le Casse Roi Russe più di quanto Mordred potrebbe persuaderli a volare.»

«E questo, come lo sai?»

Lui scosse di nuovo la testa, sebbene pensasse di poter rispondere alla sua domanda. Quello che sapeva gli giungeva dalla Torre. Sentiva nelle testa i primi palpiti della sua presenza. Era come il germoglio che spunta dal seme secco. Ma era troppo presto per dirlo.

«Sdraiati, Susannah», la invitò. «Riposa tu. Io monterò di guardia fino a mezzanotte, poi ti sveglierò.»

«Dunque ora si monta di guardia», commentò lei. Lui annuì.

«E lui tiene d'occhio noi?»

Roland non ne era certo, ma pensava di sì. L'immagine che evocava la sua immaginazione era di un bambino emaciato (che ora però aveva il pancino rotondo, perché si era nutrito a dovere) e nudo dentro uno straccio di giacca tutta strappata e lercia. Un bambino magro appostato in una di quelle case innaturalmente magre, forse al secondo piano, per approfittare di una posizione dominante. Siede a una finestra con le ginocchia serrate al petto per tenersi caldo e la cicatrice sul fianco che forse gli fa male in quel freddo penetrante. Guarda il bagliore del loro fuoco e prova invidia. Invidia anche il fatto che possano tenersi compagnia l'un l'altro. La sua mezza madre e il padre bianco, girati dall'altra parte.

«È probabile», rispose.

Lei fece per sdraiarsi, ma si fermò. Si toccò la tumescenza di fianco alla bocca. «Questo non è un foruncolo, Roland.»

«No?» Poi tacque, guardandola.

«Avevo un'amica al college alla quale ne era cresciuto uno uguale», raccontò Susannah. «Sanguinava, poi l'emorragia si fermava, sembrava che guarisse, poi diventava più scuro e sanguinava di nuovo. Alla fine andò da un dottore, uno specialista che noi chiamiamo dermatologo, che le disse che era un angioma. Un tumore del sangue. Le fece un'iniezione di novocaina e glielo asportò con il bisturi. Disse che era stato un bene che fosse andata da lui subito, perché giorno dopo giorno avrebbe allungato le sue radici sempre più in profondità. Con il tempo, le disse, le avrebbe invaso tutto il palato e forse le sarebbe entrato anche nel naso.»

Roland attese in silenzio. Nella sua mente risuonava ancora il termine che aveva usato Susannah: tumore del sangue. Lo si sarebbe potuto coniare per descrivere il Re Rosso. E anche Mordred.

«Qui non abbiamo novocaina, bella bambolina», l'apostrofò Detta Walker, «e non starò a dirtelo io! Ma se arriva il momento e te lo dico io, tu mi tiri fuori quel coltello e mi tagli via 'sta schifezza dal grugno. Più veloce che quel bimbumbam azzanna una mosca al volo. Mi hai capito? Hai afferrato?»

«Sì. Ora mettiti giù. Riposati.»

Si sdraiò. Cinque minuti dopo, quando già sembrava che dormisse, Detta Walker spalancò gli occhi e lo guardò

(ti tengo d'occhio, ragazzo bianco)

di brutto. Roland annuì e lei chiuse di nuovo gli occhi. Uno o due minuti dopo, li riaprì per la seconda volta. Ora era Susannah a guardarlo e questa volta, quando chiuse gli occhi, non li riaprì.

Aveva promesso di svegliarla a mezzanotte, ma la lasciò dormire due ore di più, sapendo che al calore del fuoco il suo organismo si stava riposando sul serio, almeno per quell'unica notte. Quando il suo bell'orologio indicò che era l'una, sentì finalmente distogliersi da loro lo sguardo del loro inseguitore. Mordred aveva perso la sua battaglia per restare sveglio nelle ore più buie della notte, come innumerevoli altri bambini prima di lui. Dovunque fosse la sua stanza, in essa ora il solitario bimbo indesiderato dormiva avvolto nello straccio di giacca che indossava, con la testa nella chiostra delle braccia.

E la sua bocca, ancora sporca del sangue di sai Thoughtful, non si raggruma e freme, come se sognasse il capezzolo che ha conosciuto una volta sola, il latte che non ha mai assaggiato?

Chissà... Ma non gli era di particolare interesse. Era solo contento di essere desto nelle ore piccole della notte, a gettare ogni tanto un pezzo di legno nelle fiamme ormai basse. Il fuoco sarebbe morto presto. La legna era più fresca di quella con cui erano costruite le case del villaggio, ma era comunque legna vecchia, indurita quasi come pietra.

L'indomani avrebbero visto gli alberi. I primi da Calla Bryn Sturgis, volendo trascurare quelli che crescevano sotto il sole artificiale di Algul Siento e quelli che avevano visto nel mondo di Stephen King. Sarebbe stato bello. Per ora era ancora il buio ad averla vinta. Fuori della cerchia illuminata dall'ultimo fuoco, gemeva un vento che sollevava i capelli sulle tempie di Roland e portava, lieve e dolce, l'odore della neve. Rovesciò la testa all'indietro e osservò l'orologio delle stelle ruotare contro la volta nera del cielo.

 

4

Pelli

 

1

 

Dovettero rinunciare al fuoco per tre notti, invece di una o due. Le ultime dodici ore di buio furono le più lunghe e orribili nella vita di Susannah. È peggio della notte in cui è morto Eddie? si domandò a un certo punto. Stai veramente dicendo che questa notte è peggio di quando eri sdraiata sveglia in uno di quei dormitori sapendo che così saresti rimasta, sdraiata in quel modo, per il resto dell'eternità? Peggio di quando gli hai lavato il viso e le mani e i piedi? Glieli hai lavati per la sepoltura?

Sì. Era peggio. Avrebbe voluto negarlo e mai lo avrebbe ammesso apertamente, ma il freddo profondo e interminabile di quell'ultima notte fu molto peggio. Odiò ogni alito di brezza che scendeva dalle nevi a est e a sud. Era insieme terribile e stranamente umiliante rendersi conto della facilità con cui il disagio fisico poteva avere il sopravvento sulla mente, dilagando come gas velenoso fino a impossessarsi di ogni più piccolo angolo dell'organismo. Cordoglio? Lutto? Che cos'erano mai quando sentivi il freddo in marcia dalla punta delle dita di mani e piedi su, verso il naso, Dio del cielo, e poi dove ancora? Al cervello, di grazia. E al cuore. Nella morsa di un freddo così, cordoglio e lutto erano solo parole. Ma no, nemmeno, erano suoni. Erano blablà privi di significato, quando stavi seduto a rabbrividire sotto le stelle in attesa di una mattina che non arrivava mai.

A rendere più insopportabile l'angoscia c'era la consapevolezza che avrebbero avuto legna in abbondanza, se avessero potuta usarla, perché avevano raggiunto la regione che Roland chiamava «sottoneve».

Si erano ormai addentrati tra lunghi pendii erbosi (dove l'erba era in quel momento scolorita e morta) e valli poco profonde, percorse da ruscelli ora ghiacciati fra piccole macchie di alberi. Durante il giorno Roland le aveva indicato alcune buche nel ghiaccio e le aveva spiegato che erano state fatte dai cervi. Le aveva mostrato anche alcuni mucchietti di sterco. Alla luce del giorno tutti quei segni erano stati interessanti, motivo di speranza. Ma nella voragine interminabile della notte, mentre ascoltava il ticchettio incontrollabile dei denti, perdevano ogni significato. Eddie non significava niente. Nemmeno Jake. La Torre Nera non significava niente, privo di significato era il fuoco da bivacco che avevano acceso fuori del villaggio. Ne ricordava l'immagine, ma era andata del tutto persa la sensazione confortevole del calore che le scaldava la pelle fino a far sgorgare il sudore. Come accade a chi è morto per pochi istanti e ha fugacemente visitato un aldilà abbagliato di luce, poteva solo dire che era stato splendido.

Roland la teneva tra le braccia, scosso ogni tanto da una tosse secca. Susannah pensava che potessero essere i primi sintomi di una bronchite, ma anche quel pensiero non attecchiva. Solo il freddo.

Una volta, poco prima che l'alba cominciasse a colorare il cielo a est, vide luci arancione danzare in lontananza, oltre la linea dove cominciavano le nevi. Chiese a Roland se sapesse che cos'erano. Il pistolero non manifestò vero interesse, se non per l'aver udito la voce di lei: segno che non era morta. Almeno non ancora.

«Credo che siano hob.»

«C-cosa s-sono?» Ormai non poteva parlare se non balbettando.

«Non saprei come spiegartelo», rispose lui. «E in realtà non ce n'è bisogno. Li vedrai da te quando verrà il momento. Per adesso, se fai attenzione, sentirai qualcosa di più vicino e più interessante.

All'inizio udì solo il sospiro del vento, poi, quando il vento cadde, le sue orecchie colsero il fruscio dell'erba sotto i passi di qualcosa. A quel primo rumore seguì uno scricchiolio sommesso. Susannah lo identificò subito: uno zoccolo che spezzava uno strato sottile di ghiaccio, liberando acqua corrente nel gelido mondo sovrastante. Pensò anche che di lì a tre quattro giorni avrebbe forse indossato una giacca fornitagli proprio dall'animale che ora beveva poco distante da lei, ma anche questo non aveva significato. Il tempo diventava un concetto astratto, quando si restava svegli al buio in preda a un dolore costante.

Aveva pensato in passato di aver patito il freddo? Da ridere, vero?

«Dov'è Mordred?» chiese. «Qui vicino, secondo te?»

«Sì.»

«E ha freddo anche lui come noi?»

«Non lo so.»

«Roland, non resisterò ancora a lungo... non credo proprio...»

«Non sarà necessario. Presto spunterà il giorno e ritengo che domani, quando calerà il sole, potremo accendere un fuoco.» Tossì avvicinandosi la mano alla bocca, poi passò di nuovo il braccio intorno alle spalle di lei. «Ti sentirai meglio quando saremo di nuovo in moto. Adesso accontentati del fatto che almeno siamo insieme.»

 

2

 

Sì, Mordred aveva freddo come loro, in tutto e per tutto, e non aveva nessuno a tenergli compagnia.

Era però abbastanza vicino da udirli: non le parole che dicevano, ma il suono delle loro voci. Tremava incontrollabilmente e, quando aveva temuto che l'udito fine di Roland potesse intercettare il rumore dei suoi denti, si era foderato la bocca di erba morta. La giacca da ferroviere non c'era più, l'aveva gettata via quando, a forza di cadere a pezzi, non gli era stato più possibile tenerla assieme. Uscendo dal villaggio aveva ancora addosso le maniche, poi avevano cominciato a sbrindellarsi anch'esse, a partire dai gomiti, e le aveva abbandonate nell'erba bassa vicino alla vecchia strada salutandole con un'imprecazione. Aveva potuto conservare gli scarponi solo perché aveva usato lunghi steli d'erba per confezionare una corda con la quale legarsene i resti ai piedi.

Avrebbe voluto ritrasformarsi in ragno, sapendo che quel corpo avrebbe patito meno il freddo, ma tutta la sua breve vita era stata perseguitata dallo spettro della fame e sapeva che quella parte di lui l'avrebbe sempre temuta, per quanto cibo avesse avuto a disposizione. Gli dei sapevano quanto fossero modeste le sue scorte adesso: tre braccia, quattro gambe (già smangiucchiate) e un pezzo di busto. Se si fosse trasformato, il ragno avrebbe divorato anche quel poco prima che facesse giorno. E sebbene in quella zona ci fosse della selvaggina - sentiva i movimenti dei cervi non meno del suo Papà Bianco - Mordred non era molto convinto delle sue capacità di cacciatore.

Così se ne restò rintanato a rabbrividire e ad ascoltare il suono delle loro voci finché cessarono anche quelle. Forse si erano messi a dormire. Avrebbe potuto riposare un po' anche lui. La sola cosa che lo tratteneva dal rinunciare all'inseguimento e tornare indietro era l'odio che provava per quei due. Per il fatto che si potessero confortare a vicenda quando lui non aveva nessuno. Assolutamente nessuno.

Mordred ha fa-fame, pensò sconsolato. Mordred ha fre-freddo. E Mordred non ha nessuno. Mordred è solo.

Si prese il polso tra i denti, strinse con forza e succhiò il calore che ne fluì. Nel sangue sentì il calore degli ultimi palpiti di vita di Rando Thoughtful... ma che poco! Già finito! Dopodiché gli restò solo l'inutile sapore riciclato di se stesso.

Nel buio, Mordred si mise a piangere.

 

3

 

Quattro ore dopo l'alba, sotto un cielo bianco che prometteva pioggia o neve o forse nevischio, Susannah Dean giaceva scossa dai brividi dietro un tronco caduto a guardare nella conca di una piccola valle. Sentirai Oy, le aveva preannunciato il pistolero. E sentirai anche me. Farò quel che posso, ma li spingerò dalla tua parte in modo da favorirti. Il più possibile. Fai che ogni colpo vada a segno.

A peggiorare la situazione c'era la sua sensazione sempre più radicata che Mordred fosse ormai molto vicino e che potesse tentare di coglierla di sorpresa. Continuava a guardarsi intorno, ma avevano scelto un posto relativamente aperto e il prato che aveva dietro di sé era sempre vuoto, ogni volta che si girava, eccetto in un caso, quando aveva visto una grossa lepre saltellare strisciando le orecchie nell'erba.

Finalmente sentì i latrati striduli di Oy da una macchia di vegetazione alla sua sinistra. Subito dopo Roland si mise a gridare. «Iah! Iah! Via via! Sciò! Anda! Anda anda...» Poi la tosse. Non le piaceva quella tosse. Non le piaceva affatto.

Scorse movimenti tra gli alberi e quella fu una delle rare volte in cui, da quando Roland l'aveva costretta ad ammettere che dentro di lei si nascondeva un'altra persona, chiamò Detta Walker.

Ho bisogno di te. Se vuoi stare di nuovo al caldo, tienimi le mani ferme e fammi sparare dritto.

E i tremiti del suo corpo cessarono. Quando il branco di cervi spuntò dagli alberi - un buon numero di capi, per la verità, almeno diciotto, guidati da un maschio con corna maestose - smisero di tremare anche le sue mani. Nella destra stringeva la rivoltella di Roland con l'impugnatura di sandalo. Ecco Oy, che usciva al galoppo dalla macchia dietro un animale ritardatario. Era una femmina mutante che correva (con inaspettata grazia, su quattro zampe di diversa lunghezza, con una quinta che le dondolava disossata dal centro del ventre come una mammella. In coda a tutti uscì Roland, che ormai aveva smesso di correre e procedeva barcollando al piccolo trotto. Ma Susannah aveva gli occhi puntati sul maschio alla guida del branco che passava in quel momento sulla sua linea di fuoco.

«Da questa parte», bisbigliò. «Un po' a destra, tesoruccio. Su da bravo. Come-come-Commala.»

E per nessuna ragione comprensibile, il grande condottiero alla testa della sua piccola truppa in fuga piegò veramente in direzione di Susannah. La quale si sentì invadere in quel momento da quel tipo di freddezza che tanto la gratificava. La sua vista diventò così acuta da permetterle di vedere l'incresparsi dei muscoli sotto la pelle del maschio il bianco dei suoi occhi spiritati, la vecchia ferita sulla zampa anteriore della femmina più vicina, dove il pelo non era più ricresciuto. Per un istante rimpianse di non avere Eddie e Jake accanto a sentire quello che sentiva lei, vedere quello che vedeva lei. Poi anche quel sentimento svanì.

Io non uccido con la pistola; colei che uccide con la pistola ha dimenticato il volto di suo padre.

«Io uccido con il cuore», mormorò e cominciò a sparare.

La prima pallottola colpì il maschio alla testa. Il cervo stramazzò sul lato sinistro. Gli altri lo superarono di slancio. Quando una femmina spiccò il balzo sul suo cadavere, la seconda pallottola di Susannah la colpì all'apice della parabola. L'animale piombò a terra morto dall'altra parte spezzandosi una zampa.

Sentì Roland fare fuoco tra volte, ma non cercò di vedere se aveva avuto successo; aveva da fare in quel momento e stava svolgendo più che bene il suo lavoro. Ciascuno dei quattro proiettili che aveva ancora nel tamburo abbatté un cervo e solo uno si muoveva ancora dopo essere stato ferito. Non indugiò a riflettere sulla straordinarietà della sua impresa, specialmente con una pistola; era una pistolera, in fondo, e sparare era il suo mestiere.

E poi quella mattina non c'era vento.

Metà del branco era rimasto nell'erba della valletta. I superstiti proseguirono al galoppo verso il torrente e pochi istanti più tardi scomparvero dietro uno schermo di salici. Solo uno, un maschio di non più di un anno, corse direttamente verso di lei. Susannah non cercò di ricaricare con le pallottole che aveva preparato di fianco a sé su un pezzetto di pelle di daino, e prese invece un Oriza, trovando automaticamente con le dita il segmento non affilato

«Oriza!» gridò lanciando. Il piatto sfrecciò sulla sfondo brullo dell'erba secca, alzandosi leggermente durante la traiettoria e spargendo nell'aria il suo gemito di morte. Raggiunse il cervo in corsa tra spalla e testa. Si aprì come in una ghirlanda un ventaglio di gocce di sangue, nere contro il bianco del cielo. Neppure la mannaia di un macellaio sarebbe potuta essere più precisa. Per un momento il cervo continuò a galoppare, deceduto e decapitato, mentre il sangue, pompato dagli ultimi battiti del cuore morente, gli sgorgava dal collo squarciato. Poi stramazzò sulle gambe anteriori divaricate a meno di dieci metri dal tronco dietro il quale era appostata Susannah, macchiando di rosso vivo l'erba morta e ingiallita.

Il lungo sconforto della notte precedente fu dimenticato. Il torpore nelle mani e nei piedi era scomparso. Non c'era più cordoglio ora in lei, nessun senso di lutto, nessuna paura. In quel momento Susannah fu esattamente la donna che il ka aveva voluto che fosse. L'odore della polvere da sparo mescolata a quello del sangue del sangue del cervo abbattuto era acre; ma era anche il profumo più inebriante del mondo.

Ritta sui moncherini, Susannah spalancò le braccia assumendo la forma di una grande Y contro il cielo, con la pistola di Roland ancora stretta nella mano destra. Poi gridò. Non ci furono parole nel grido né potevano esserci. I nostri più esaltanti momenti di trionfo sono sempre inarticolati.

 

4

 

Roland aveva insistito perché consumassero un'enorme prima colazione e le sue proteste sull'inesistente sapore della carne in scatola non lo avevano minimamente scalfito. Alle due del pomeriggio, secondo quanto indicava la sua vezzosissima cipolla - vale a dire quando le fitte gocce di pioggia si trasformarono in aghi di ghiaccio, ebbe motivo di essergli grata. Non aveva mai lavorato così duramente e la giornata ancora non era finita. Roland fu sempre al suo fianco, a gareggiare con lei in tenacia nonostante la sua tosse andasse peggiorando. Durante la breve pausa per un pranzetto di inaudita squisitezza a base di bistecche di cervo alla griglia, Susannah ebbe tempo di riflettere sulla misteriosità del suo compagno. Dopo tutte quelle avventure, ancora non lo conosceva fino in fondo. Non c'era andata nemmeno vicino. Lo aveva visto ridere e piangere, uccidere e ballare, lo aveva visto dormire e lo aveva visto accovacciarsi dietro i cespugli con i calzoni calati e il culo sporgente da quello che chiamava il Ceppo dello Sgravio. Non era mai giaciuta con lui come fa una donna con un uomo, ma riteneva di averlo visto in ogni altra situazione possibile, eppure... no. Ancora non lo conosceva fino in fondo.

«Quella tua tosse mi sembra sempre più un attacco di polmonite», commentò quando era cominciato a piovere da non molto. Erano in quella fase della loro attività quotidiana che Roland chiamava aven-car: trasportare le prede e prepararle per trasformarle in qualcos'altro.

«Non darti pensiero», rispose Roland. «Ho quel che mi serve per curarmi.»

«Dici il vero?» ribatté lei dubbiosa?

«Yar. E queste, che non ho mai perduto.» Le mostrò una manciata di compresse di aspirina prese dalla tasca. L'espressione che aveva sul viso le sembrò di autentica venerazione... e perché no? Poteva ben darsi che dovesse la vita a quella che chiamava «astina». Astina e «cheflet».

Caricarono le prede sul Fior di Taxi, che trainarono al torrente. Ci vollero tre viaggi. Dopo che ebbero accatastato le carcasse, Roland collocò sulla cima la testa del giovane maschio, che li fissò con gli occhi vitrei.

«Perché l'hai fatto?» volle sapere Susannah con una traccia di Detta nella voce.

«Avremo bisogno di tutte le cervella», spiegò Roland e si tossì di nuovo nel pugno chiuso. «È un modo sporco di fare questo lavoro, ma è veloce e funziona.»

 

5

 

Quando tutte le prede furono ammucchiate vicino all'acqua gelida e spumeggiante («almeno non saremo infastiditi dalla mosche», osservò Roland) il pistolero cominciò a raccogliere legna. La prospettiva del fuoco rallegrò Susannah, la quale tuttavia non ne soffriva più dolorosamente la mancanza come la notte precedente. Aveva lavorato sodo e almeno per il momento era più che riscaldata. Cercò di ricordare la profondità della sua disperazione, la spietatezza con cui il freddo le si incuneava nelle ossa trasformandole in vetro, ma non ci riuscì. Il corpo era capace di scordare le pene peggiori, rifletté, e senza la sua collaborazione, al cervello restavano solo ricordi simili a istantanee sbiadite.

Prima di cominciare a cercare legna, Roland aveva ispezionato la sponda del torrente e scelto un sasso. Lo aveva consegnato a Susannah e lei aveva passato il pollice sulla sua bianca superficie levigata dall'acqua. «Quarzo?» chiese, ma pensava di sbagliarsi.

«Non conosco quella parola, Susannah. Noi lo chiamiamo chert. Si ricavano strumenti che sono primitivi ma molto pratici: testa di ascia, coltelli, teste di lancia, raschietti. A noi servono i raschietti. E almeno un martello.»

«So che cosa dobbiamo raschiare, ma a che serve il martello?»

«Te lo mostrerò, ma prima vuoi venire qui un momento?» Roland si era inginocchiato e le aveva preso una mano. Erano entrambi girati verso la testa del giovane cervo.

«Ti ringraziamo per quanto stiamo per ricevere», aveva detto Roland alla testa e Susannah non aveva potuto fare a meno di rabbrividire. Erano le stesse parole con cui esordiva suo padre quando recitava l'orazione prima di un pasto importante, quelli ai quali partecipava la famiglia intera.

La nostra famiglia è spezzata, aveva pensato, ma lo aveva tenuto per sé; ciò che è stato, è stato. Aveva invece risposto con le parole che aveva imparato da bambina: «Padre, noi ti ringraziamo».

«Guida le nostre mani e guida i nostri cuori nel prendere vita dalla morte», aveva aggiunto Roland. Poi l'aveva guardata con le sopracciglia sollevate invitandola a parlare, se avesse avuto ancora qualcosa da dire.

Susannah aveva trovato qualcosa. «Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome. Venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra. Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male; tu sei il regno, il potere e la gloria, ora e per sempre.»

«Bella preghiera», aveva commentato lui.

«Già», aveva annuito lei. «Non l'ho detta proprio giusta, ma è passato troppo tempo, ma è ancora la preghiera più bella. E adesso mettiamoci al lavoro, finché sento ancora le mani.»

Roland aveva risposto con un amen.

 

6

 

Roland prese la testa del cerbiatto (gli spuntoni dei palchi appena nati offrivano una presa agevole), se la sistemò davanti e vi calò sopra il sasso grosso come un pugno. Lo scricchiolio ovattato della frattura serrò la bocca dello stomaco a Susannah. Roland afferrò di nuovo i palchi appena nati e tirò, prima a sinistra e poi a destra. Quando Susannah vide il movimento dei due pezzi di cranio sotto la pelle, lo stomaco non si limitò a contrarsi, ma cominciò a ruotare lentamente su se stesso.

Roland colpì la testa ancora due volte, calando il pezzo di chert con precisione quasi chirurgica. Poi usò il coltello per tagliare un cerchio nella pelle, che sollevò strappando come per togliere un cerotto. Divenne così visibile la frattura sottostante. Introdusse la lama del coltello nella crepa più ampia e la usò come leva. Quando il cranio fu debitamente scoperchiato, Roland estrasse il cervello e lo posò con cura accanto alla testa. Poi alzò gli occhi su Susannah. «Avremo bisogno del cervello di tutti cervi che abbiamo ucciso ed è per questo che ci serve il martello.»

«Ah», ribatté lei con la gola strozzata. «Cervella...»

«Per preparare un impasto per la concia. Ma il chert non serve solo a questo.» Le diede subito una dimostrazione, battendo l'una contro l'altra due pietre fino a spezzarne una, che si separò in sezioni regolari di grandi dimensioni e non in una miriade di frammenti frastagliati. Susannah sapeva che così si rompevano le rocce metamorfiche, mentre scisto e altri minerali simili erano di solito troppo deboli per ricavarne strumenti affidabili. Quella roccia era invece decisamente forte.

«Quando salta via un pezzo che da una parte è abbastanza spesso da poterlo stringere bene nella mano e dall'altro è invece sottile e tagliente», spiegò Roland, «lo metti da parte. Quelli sono i pezzi che useremo come raschietti. Se avessimo più tempo, potremmo preparare dei manici, ma non ne abbiamo. Quando sarà ora di coricarci, avremo le mani piene di piaghe.»

«Secondo quanto tempo ci vorrà per avere un numero sufficiente di raschietti?»

«Non molto», rispose Roland. «Il chert si rompe bene, o così ho sempre sentito dire.»

Mentre Roland accumulava legna per un fuoco in una macchia di salici e ontani sulla sponda del torrente, Susannah ne ispezionò le rive in cerca di chert. Aveva già trovato una decina di pezzi di dimensioni adatte, quando s'imbatté in un masso di granito che emergeva dal terreno in una curva levigata e consumata dalle intemperie. Avrebbe potuto ottimamente fungere da incudine.

Era vero che il chert si rompeva secondo linee propizie, cosicché, quando Roland arrivò con la sua terza fascina, aveva già ricavato dalle pietre trenta rudimentali raschietti. Roland preparò un mucchietto di legni sottili che Susannah protesse con le mani. Aveva cominciato a cadere nevischio e sebbene lavorassero sotto lo scudo di un denso intreccio di rami, non sarebbe passato molto prima che fossero fradici entrambi.

Acceso il primo fuoco, Roland si allontanò di qualche passo, si lasciò cadere sulle ginocchia e giunse la mani.

«Preghi di nuovo?» gli chiese lei divertita.

«Quello che impariamo nell'infanzia ti resta inculcato per sempre», rispose lui. Chiuse gli occhi per qualche istante, poi si portò le mani giunte alla bocca e le baciò. L'unica parola che Susannah colse fu Gan.

Poi Roland aprì gli occhi e alzò la mani, aprendole e muovendole in un gesto aggraziato che le fece pensare a due uccellini che volavano via. Quando il pistolero parlò di nuovo, la sua voce risuonò asciutta e sbrigativa: Mister Rimbocchiamoci le Maniche. «Benissimo, dunque», sbottò. «Mettiamoci al lavoro.»

 

7

 

Confezionarono una corda di steli d'erba, come aveva fatto anche Mordred, e appesero il primo cervo, quello già decapitato, per le zampe posteriori a un ramo basso di salice. Con il coltello, Roland ne squarciò il ventre, infilò quindi le mani nelle viscere, rovistò e rimosse due organi rossi e gocciolanti che dovevano essere i reni.

«Questi per la febbre e la tosse», annunciò e affondò i denti nel primo come se fosse una mela. Susannah ricacciò in gola un singulto e si girò a contemplare il torrente aspettando che finisse. Solo allora tornò a voltarsi e guardò Roland incidere con il coltello le zampe della carcassa il più vicino possibile alle articolazioni.

«Meglio?» gli chiese con un certo disagio.

«A suo tempo», ribatté lui. «Ora aiutami a togliere la pelle a questa bestia. La prima deve avere ancora il pelo. Ci serve un recipiente per il nostro impasto. Ora guarda.»

Introdusse le dita dove la pelle del cervo era ancora attaccata al corpo da uno strato sottile di grasso e tessuti molli. Quando tirò, la pelle si strappò facilmente fino a metà del busto del cervo. «Dalla tua parte adesso, Susannah.»

Il momento veramente difficile fu solo quello in cui dovette infilare le dita sotto la pelle. Questa volta tirarono insieme e quando tutta la pelle della bestia rimase appesa alle zampe anteriori, le ricordò vagamente una camicia. Sempre usando il coltello, Roland la tagliò, poi cominciò a scavare a una certa distanza dal fuoco ma sempre al coperto degli alberi. Lei lo aiutò gustando la sensazione del sudore che le scivolava sul viso e il corpo. Quando ebbero scavato una conca larga mezzo metro e profonda più o meno altrettanto, Roland la foderò con la pelle.

Per tutto il pomeriggio, lavorando a turno, scuoiarono gli altri otto cervi che avevano uccisi. Era importante farlo il più velocemente possibile, perché quando lo strato sottostante di grasso e muscoli si fosse asciugato, l'operazione sarebbe diventata più lenta e più ardua. Il pistolero alimentò continuamente il fuoco, abbandonandola di tanto in tanto per spargere le ceneri sul terreno di fianco alle fiamme. Quando si erano raffreddate da non rischiare di bruciare la pelle che foderava la fossa, le spingeva nello scavo. Alle cinque Susannah aveva schiena e braccia a pezzi, ma ancora teneva duro. Roland era ridicolo, con la faccia, il collo e le mani imbrattate di ceneri.

«Potresti esibirti come minstrel, lo canzonò lei. «Rastus Coon.»

«E chi sarebbe?»

«Solo il buffone della gente dalla pelle bianca», rispose. «Secondo te Mordred ci sta guardando lavorare?» Era rimasta all'erta per tutta la giornata.

«No», disse lui, fermandosi a riposare. Dalla fronte si scostò i capelli all'indietro, stampandosi sul volto una nuova macchia, che ora le fece pensare ai penitenti del mercoledì delle Ceneri. «Credo che si sia allontanato per cacciare anche lui.»

«Mordred ha fa-fame», mormorò lei. «Tu riesci a toccarlo un po', vero?» domandò poi alzando la voce. «Almeno abbastanza da sapere quando c'è e quando è lontano.»

Roland rifletté, poi rispose semplicemente: «Sono suo padre».

 

8

 

Quando cominciò a far buio, avevano messo assieme un bel cumulo di pelli e una pila di carcasse scuoiate e decapitate che certamente, se non avesse fatto così freddo, sarebbe stato nero di mosche. Consumarono un altro pasto abbondante di bistecche di cervo abbrustolite sul fuoco, assolutamente squisite, e Susannah tornò con la mente a Mordred, che in quel momento, nascosto da qualche parte nell'oscurità, stava probabilmente mangiando carne cruda. Forse aveva anche dei fiammiferi, ma non era stupido; se avessero visto un altro fuoco in quel buio, lo avrebbero sicuramente attaccato. Dopodiché, bang bang bang, e tanti saluti al bimbo-ragno. Provò un'incredibile compassione per lui e si ammonì a restare in guardia. Di certo lui non ne avrebbe provata né per lei né per Roland, fossero stati a parti invertite.

Finito di cenare, Roland si pulì le dita unte sulla camicia e disse: «Ottimo davvero».

«Sottoscrivo.»

«Adesso tiriamo fuori le cervella. Poi dormiremo.»

«Uno alla volta?» chiese Susannah.

«Sì... per quel che ne so io, il cervello è uno cadauno.»

Per un momento Susannah rimase interdetta nell'udire quell'espressione di Eddie

(uno cadauno)

uscire dalla bocca di Roland, così colse in ritardo la battuta di spirito. Non era un granché, ma era stata dettata dal cuore. Riuscì a spremersi una risatina. «Molto divertente, Roland. Sai che cosa intendevo.»

Lui annuì. «Dormiremo uno alla volta e monteremo di guardia, sì. Credo sia meglio.»

Tempo e ripetizione avevano avuto le loro conseguenze; ormai aveva visto troppe viscere rotolare per terra perché potesse lasciarsi impressionare da qualche cervello. Spaccarono teste, usarono il coltello di Roland (che ormai aveva perso il filo) per dilatare le crepe e svuotarono i crani. Misero accuratamente da parte le cervella, come una covata di grosse uova grigie.

Dopo che ebbero svuotato anche l'ultimo cranio, Susannah si ritrovò con le dita così indolenzite e gonfie da non riuscire quasi a piegarle.

«Mettiti giù», la esortò Roland. «Dormi. Monterò io di guardia per primo.»

Non obiettò. Con la pancia piena e al calore del fuoco, sapeva che si sarebbe assopita subito. Sapeva anche che l'indomani, quando si sarebbe svegliata, avrebbe avuto i muscoli così rigidi da potersi alzare a sedere solo con difficoltà e dolore. In quel momento però le importava poco. Era gonfia di una sensazione di enorme contentezza. In parte era per aver potuto mangiare cibo caldo, ma c'era ben altro. La maggiore sensazione di benessere le veniva da una giornata di duro lavoro, né più né meno. La gratificazione di non limitarsi a sopravvivere, bensì fare cose per sé.

Gesù, pensò, non sarà che invecchiando sto diventando Repubblicana?

Di un'altra cosa si accorse in quel momento: il silenzio. Nessun suono se non il sospiro del vento, il frusciare del nevischio (che ora andava diradando), e il crepitio di quel fuoco benedetto.

«Roland?»

Il pistolero si girò da dove sedeva vicino al fuoco, alzando un sopracciglio.

«Hai smesso di tossire.»

Lui sorrise e annuì. Susannah portò nel sonno il suo sorriso, ma poi sognò Eddie.

 

9

 

Rimasero accampati sul torrente per tre giorni, durante i quali Susannah apprese sulle tecniche di concia e confezione di indumenti di pelle più di quanto avrebbe mai immaginato (e molto più di quanto in realtà avrebbe desiderato sapere).

Perlustrando la sponda per un miglio in entrambe le direzioni, trovarono un paio di tronchi, uno per ciascuno. Mentre cercavano lasciarono inzuppare le loro pelli nella fossa in un denso brodo di ceneri allungate con acqua. Appoggiarono i tronchi morti inclinati contro quelli vivi di due salici (li scelsero vicini, per poter lavorare gomito a gomito) e spelarono le pelli usando i raschietti di chert. Per questa operazione ci volle un giorno.

Svuotarono quindi la fossa, rovesciarono la pelle che avevano usato come fodera e la riempirono di nuovo di cervella spappolate e mescolate con l'acqua. Questo sistema di «concia a freddo» le era del tutto nuovo. Immersero le pelli in questa nuova zuppa e le lasciarono a mollo per tutta la notte. Susannah intrecciò nervi e tendini, mentre Roland riaffilava il coltello, che poi usò per temperare alcuni ossi ricavandone una decina di aghi. Quand'ebbe finito, il pistolero aveva tutte le dita sanguinanti da decine di piccoli tagli. Vi spalmò un impasto di ceneri e dormi così, con le mani che sembravano infilate in grossi e scomodi guantoni grigio scuro. L'indomani mattina, quando se le lavò nel torrente, Susannah notò con meraviglia che i tagli erano quasi guariti. Si applicò allora un po' di quell'impasto sulla piaga che aveva di fianco alla bocca, ma non sopportandone l'intenso bruciore, si affrettò a lavarsela via al più presto.

«Voglio che estirpi questo dannato coso», brontolò.

Roland scosse la testa. «Aspetteremo ancora un po' che guarisca da solo.»

«Perché?»

«Usare il coltello su una piaga è una pessima idea a meno che sia assolutamente indispensabile. Specialmente in un posto come questo, che Jake avrebbe definito 'a casa di Dio'.»

Susannah non poté non convenirne, ma quando si sdraiava nella sua mente si formavano immagini poco piacevoli: il foruncolo che cominciava a dilagare, scavandole il volto centimetro dopo centimetro, trasformandole la testa intera in un enorme tumore nero, incrostato e sanguinolento. Nel buio, quelle visioni diventavano orribilmente convincenti, ma grazie al cielo era sempre troppo stanca perché riuscissero a tenerla sveglia a lungo.

Nel secondo giorno a quello che Susannah aveva mentalmente ribattezzato Campo di Concia, Roland costruì una traballante struttura sopra un nuovo fuoco, di cui manteneva la fiamma bassa. Su di essa affumicarono le pelli a due a due. L'odore del prodotto finito si rivelò sorprendentemente piacevole. Sembra cuoio pensò Susannah avvicinandosi una pelle al naso. Poi dovette ridere. Per forza, era quello che stavano creando.

Il terzo giorno fu dedicato al lavoro di «sartoria», e qui finalmente Susannah ebbe la meglio sul pistolero. I punti di Roland erano distanziati e non più che accettabili. A suo giudizio gli indumenti da lui confezionati avrebbero resistito per un mese, forse due, poi avrebbero cominciato a disfarsi. Lei era assai più abile. Il cucito era un'arte che aveva appreso da sua madre e entrambe le nonne. Ai primi tentativi di usare gli aghi di osso preparati da Roland credette di ammattire, poi si confezionò dei cappucci di pelle per coprirsi pollice e indice della mano destra e da quel momento riuscì a procedere più speditamente. Verso la metà del pomeriggio aveva già cominciato a prelevare gli indumenti dalla pila di Roland e a ripassarne i punti con una seconda cucitura più fitta e resistente. Si aspettava delle proteste - gli uomini sono orgogliosi - ma non arrivarono e fu meglio così. Con tutta probabilità a rispondere alle sue lagnanze sarebbe stata Detta.

Alla fine del terzo giorno al Campo di Concia, erano entrambi possessori di un gilet, un paio di gambali e un giaccone. Avevano anche un paio di manopole ciascuno. Erano grandi e ridicole, ma scaldavano bene le mani. E, a proposito di mani, Susannah aveva ripreso a piegare almeno leggermente le proprie. Guardò perplessa le pelli rimaste e chiese a Roland se avrebbero passato un altro giorno a cucire.

Lui ci pensò su, ma scosse la testa. «Le caricheremo sul Fior di Tack-sì, direi, e ci mettiamo anche della carne con qualche pezzo di ghiaccio preso dal torrente per conservarla.

«Quando arriveremo alla neve non potremo più utilizzare il taxi, vero?»

«Sì», ammise, «ma ormai avremo cucito anche le altre pelli e consumato tutta la carne.»

«Fondamentalmente ripartiamo solo perché tu non ce la fai a restare qui ancora, giusto? La senti chiamare. La Torre.»

Roland guardò le fiamme scoppiettanti del fuoco e non rispose. Non ce n'era bisogno.

«Come faremo a trasportare la nostra roba quando arriveremo alle terre bianche?»

«Costruiremo una treggia. E per mangiare troveremo selvaggina in quantità.»